Recensioni / Arbasino perdeva petrolio

A un certo punto, Alberto Arbasino comincia a girare per Roma con un manoscritto, che non lascia mai. Altre volte lo mette al sicuro, in una cassetta di sicurezza in banca. «Ho paura che me lo rubino», confida agli amici. Il romanzo «pasoliniano» di Arbasino è una delle scoperte che si possono fare leggendo il prezioso e vivissimo ritratto che Michele Masneri fa di uno dei più grandi scrittori e intellettuali del novecento italiano in Stile Alberto (Quodlibet).
Che fine ha fatto quel romanzo? Mistero. Un lungo frammento è stato inserito nella terza stesura di Fratelli d'Italia, pubblicata da Adelphi nel 1993: «Una specie di romanzo nel romanzo, lungo una sessantina di pagine, diversissimo dal resto del libro». In quelle pagine, Arbasino scrive dell'Eni e della fine degli idrocarburi, «con una prosa inquietante e piana, che ricorda un po' il Brodskij di Fondamenta degli incurabili e il Naipaul dei reportage dal Sudamerica». Ma che, soprattutto, ricorda il Petrolio di Pier Paolo Pasolini, il romanzo fiume postumo che è uno dei tanti misteri della fine dello scrittore. Tutto riporta al romanzo maledetto e ai suoi capitoli forse trafugati. «È davvero incredibile — scrive Masneri — che il tema fosse lo stesso, che Petrolio esca nel 1992, mentre questa stesura di Fratelli d'Italia è dell'anno dopo». Ipotesi: che fosse questo il romanzo perduto, sparito, l'ultimo della fase romanzesca di Arbasino? C'è un mistero «pasoliniano» dietro questo inedito?
La suggestione è forte. Masneri racconta che Arbasino parlò di un romanzo mai finito e «fatto scomparire». Una persona di cui si fidava lo aveva giudicato «non un granché». Basta per rinunciare, per gettare via il suo grande romanzo politico? Arbasino voleva emulare Pasolini, «un amico vero, un mentore, ma anche un rivale»? Il poeta lo aveva fatto esordire sulla rivista «Officina», con i versi di L'apprendista Tebaide. Ma c'è poi quella lettera micidiale nella quale Pasolini lo accusa di «un certo provincialismo». E sa di colpire duro, perché aggiunge: «Questo Le darà un gran dolore, lo so: se ne sentirà offeso». È verosimile che ne sentisse offeso, e forse anche per questo la recensione postuma di Petrolio fu una sorta di «sfottò colto». Ma c'è un'altra pista, a rileggerlo su «Repubblica», il 27 ottobre 1992: «Ho vissuto con angoscia una vicenda simile: la stesura di un romanzo di molte centinaia di pagine, per anni e anni fino a ieri, con l'incubo dei romanzi europei del Novecento che più amiamo, un po' troppo spesso incompiuti, perché l'autore si consuma sempre più piccolo e poi si spegne, mentre il grosso volume cresce e si sviluppa come un albero sopra un morto». Racconta, lì, della sua lotta contro «sciatterie stilistiche, improprietà, luoghi comuni, anacronismi, ripetizioni... e dunque forbici, scotch tape, correzioni a margine, ricerche con repertori alfabetici». E la paura di non farcela: «Quando, pochi anni fa, ho avuto due incidenti vicini (Porsche ribaltata per lo scoppio d'una gomma in autostrada, incendio in casa con distruzione di scaffali di cataloghi introvabili), l'immagine di quei fogli lasciati da Pasolini, o da Gadda, si è fatta quasi tormentosa».
Stile Alberto racconta molto di più di Arbasino. È un ritratto confidenziale, il diario di un inseguimento, gli appunti di un apprendistato letterario che ha coinciso con l'educazione sentimentale fornita dai libri e dalla frequentazione con lo scrittore. La storia, come scrive Masneri, «di un innamoramento letterario immediato, con immedesimazione delirante». All'epoca si era sviluppato un circoscritto ma tenace culto arbasiniano. C'era una piccola setta di adepti che si scambiavano come figurine edizioni rare delle sue opere. Ma essere Arbasino, diventare Arbasino, vuoi dire rischiare il ridicolo: Masneri lo sa, non corre il rischio, e con una prosa colta, ironica e affettuosa si limita ad accompagnare il Venerabile Maestro (mai passato per la fase del «solito stronzo», da lui teorizzata), che ha frequentato negli ultimi anni della sua vita, facendo un ritratto sincero di uno scrittore che è stato una grande «macchina di stile»: «Lingua e disinvoltura totale, nella vita e sulla pagina. Una figura di intellettuale dandy fastoso, così diverso dallo scrittore italiano tipico». La sua prosa inimitabile, e così imitata, riecheggia nell'Anonimo lombardo, dove contesta «la lingua scritta, falsa per definizione, intrattenuta in finzioni insensate da una greve tradizione di retori con l'orecchio di piombo» e gli contrappone «il miglior sound dell'italiano parlato», «conservandogli quell'agio naturale e vestendolo con camicia disinvolta e pantaloni letterati d'aspetto un po' mondano, di vita».
Negli anni Sessanta la critica l'aveva considerato «un marginale un po' bizzarro, un po' come si diceva di Gadda ai suoi tempi, un raffinato irrilevante inutilmente complicato (anche se Arbasino stava molto in California, e Gadda alla Camilluccia)». Ma poi per lui si aprono le strade del successo, grazie anche a «un originale business model imparato dall'amato Edmund Wilson — scrivere articoli che poi diventano saggi che poi diventano romanzi; e controllo totale sull'opera apertissima ma chiusa: riscritture, restyling, riedizioni». Senza dimenticare il fenomenale talento da copy, sulla scia di D'Annunzio, da lui rilanciato: la casalinga di Voghera, il tormentone, la gita a Chiasso, il «signora mia», le tre fasi dell'intellettuale italiano (brillante promessa, solito stronzo, venerato maestro).
Fu maestro di stile e d'eleganza, di etica e di estetica, snob fino alla parodia, amante del lusso e della nobiltà, che rivalutava così: «Alla fine in Italia un critico letterario medio sa l'inglese peggio di un marchese coglione». Provocatore elegante, la frivolezza, diceva Paolo Milano, «era la sua spicciola dannazione». Anche se Proust ammoniva: «La frivolezza è uno stato violento». C'è stato un periodo nel quale i giornali italiani erano tempestati da brevi lettere di Arbasino: ti svegliavi, aprivi un quotidiano e ci trovavi tre righe illuminanti o incomprensibili o incomprensibilmente illuminanti. Perché poi lui era così, «capace di grandi digressioni e improvvisi silenzi», opere fiume come i Fratelli d'Italia, zeppe di rimandi a ignoti cantanti e concerti in castelli ormai demoliti dal tempo, con brevi divagazioni paratattiche, spesso ospitate dalle cartoline, che spediva copiose agli amici.
Nella sua opera-mondo trovava spazio lateralmente, eppure con una posizione più eversiva che in mille noiosissimi pamphlet, un'omosessualità che non aveva nulla di politico o burocratico o dannato. Roma in quegli anni era una sorta di «capitale dell'internazionalismo gay» e Arbasino condivideva con Pasolini un modo di vivere che però non poteva essere più diverso: «I due si ritrovavano, con le loro auto sportive che sgommavano per Roma, nel rimpianto per un'Italia che stava finendo, l'Italia delle lucciole per PPP e degli "allegri marchettoni" per AA; dei militari e marinai sempre disponibili, un'Italia in cui non c'erano mai state leggi antigay perché si presumeva che il maschio italico fosse esente dal turpe vizio». Arbasino rifiutò sempre la definizione di gay e anche il coming out: «L'Arbasino pride era piuttosto per un'omosessualità aristocraticamente outdoor e scapestrata».
Anche per questa sua ritrosia a burocratizzare e formalizzare, restò nell'ombra, se non nella cerchia degli amici, il fidanzato Stefano, «un imponente e simpatico giovanotto lombardo», alter ego di Arbasino. E qui c'è una notazione amara di Masneri, che va citata, in conclusione di un libro che è una miniera di intelligenza e di ironia: «Stefano è l'amore della vita di Alberto. Nella morte però il suo nome non comparirà da nessuna parte: conseguenza estrema e coerente, danno collaterale. del "finché una cosa non viene nominata non esiste e rimane invisibile anche se la si fa". Che tristezza, però».

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