Recensioni / Un bisiaco racconta le liriche di Biagio Marin, l'ultimo lavoro di Ivan Crico

Le liriche di Biagio Marin dedicate a Pier Paolo Pasolini raccontate da uno dei massimi studiosi di linguistica dialettale bisiaca, e non solo, contemporanei, ovvero Ivan Crico. È questo il leitmotiv della pubblicazione che, qualche mese fa, ha visto la casa editrice Quodlibet dare alle stampe un importante volume curato da Crico assieme a Pericle Camuffo con l’ausilio di vari studiosi e letterati locali. Ivan Crico ha voluto raccontare a Il Goriziano questo lavoro, sicuramente non facile, ma che, nella rosa di pubblicazioni e lavori di racconto dei dialetti del nostro Territorio, è tra i petali che rendono il fiore in sé non più bello ma, all’occhio più attento, conferiscono il tocco di delicatezza in più che ci li fa apprezzare.

Come nasce l’idea di recuperare le liriche di Marin dedicate a Pasolini con un nuovo commento? Il lavoro in sé ha presentato qualche difficoltà?

Mi era capitato in mano questo meraviglioso libretto, edito da Schiwiller, tanti anni fa. Tredici densissime liriche, senza traduzione né glossario, scritte poco dopo la morte di Pasolini. Ne rimasi folgorato. Quindi è stato per me naturale proporlo a Giorgio Agamben, curatore per Quodlibet della collana di poesia in dialetto “Ardilut”. Nel frattempo, lo studioso Pericle Camuffo mi aveva messo al corrente dei suoi studi sui diari di Marin, da cui emergeva il rapporto molto affascinante e complesso tra questi due grandi autori. Ci è sembrato importante unire le poesie con i brani dei diari, proponendo anche una versione in lingua autoriale, non letterale, per cercare in qualche modo di restituire al lettore una eco lontana dell'intraducibile, sublime musicalità dei testi originali. Un'operazione di grande complessità, anche dal punto di vista filologico, dal momento che Marin utilizza spesso parole che si possono interpretare in vari modi e termini del vocabolario gradese non sempre facilmente decodificabili.

Che importanza hanno queste liriche all’interno dell’opera omnia mariniana, considerando che negli ultimi anni vi è stata anche una riscoperta dell’autore?

In anticipo su molti suoi contemporanei e pur impiegando nei suoi versi un linguaggio compreso da pochissimi, il dialetto gradese, si può ben dire che Marin, da subito, fu un intellettuale di respiro europeo e non soltanto europeo, svincolato dai problemi, spesso sterili ed autoreferenziali, di un panorama culturale sempre piuttosto chiuso verso l’esterno com’é stato, spesso se non sempre, quello del nostro paese. Marin, in questo modo, raccolse nei suoi versi i segni, sempre filtrati dalla sua forte personalità e quindi non sempre facilmente riconoscibili, di suggestioni e incontri a volte lontanissimi; segni che la vastità e l’apparente ripetitività della sua opera nasconde ma di cui, in realtà, determinano la lenta, quasi impercepibile evoluzione verso un dettato sempre più nudo, musicale, verso lo spazio vuoto e saturo insieme di una dimensione ridotta alla pura essenza. La monotonia e l’immobilità che sembra caratterizzare a prima vista l’opera mariniana (cha tanti studiosi ha tratto in inganno) cede, ad un’analisi più approfondita, allo stupore di fronte ad un accanito e lunghissimo lavoro che procede, michelangiolescamente, per “via di levare”, in cui l’elemento fisico pur apparendo si rivela, alla fine, svuotato da ogni residuo di descrittivismo. Il Critoleo del corpo fracassao è un assoluto capolavoro, un nucleo incandescente in cui Marin riesce a far ardere assieme, in una fiamma sempiterna, tutta la sua enorme cultura e sensibilità umana.

In sé, Marin è abbastanza conosciuto a livello territoriale o si può fare di più, anche alla luce della scomparsa qualche mese fa della voce storica di Biagio Marin, ovvero Edda Serra?

L'apparente semplicità del dettato mariniano non deve trarre in inganno: ci troviamo di fronte ad uno dei poeti più colti ed aggiornati del suo tempo, con una preparazione filosofica di altissimo livello, unita ad una profonda conoscenza delle lingue, che gli permetteva di leggere in lingua originale i maestri della telogia medievale come Eckart o i libri, appena usciti, di autori come Jaspers ed Heidegger. Nella sua poesia riaffiorano, mai esibiti ma sempre perfettamente metabolizzati ed armonizzati, rimandi ad autori di ogni epoca e latitudine. Si tratta di un autore che ha lasciato dietro di sé una produzione letteraria sconfinata, con migliaia di pagine di diario ancora inedite e ricche di sorprese, come vediamo anche in questo libro leggendo il saggio prezioso di Camuffo. Un autore, non soltano secondo il mio parere, lo ribadisco con convinzione, tra i più interessanti del Novecento.

Un bisiaco che fa riscoprire alcune poesie del gradese Marin, due dialetti che differiscono ma anche che si intrecciano, a volte, e che avrebbero bisogno di una salvaguardia e tutela maggiore. Che tipo di relazione hannno intrattenuto questi linguaggi storici con la lingua nazionale e che importanza hanno avuto e possono avere ancora questi linguaggi in ambito letterario?

Per comprendere un aspetto significativo - ma solitamente poco evidenziato - del rapporto complesso tra lingua italiana ed un idioma storico di diretta derivazione latina come il veneto, bisogna ricordare che dai parlanti questi linguaggi “poveri” sono stati sempre percepiti, anche nelle più particolari ed isolate varianti come nel caso del gradese o del nostro bisiaco, diretti eredi di una lingua madre di assoluto prestigio, come quella impiegata dalla nobiltà e dai funzionari della Repubblica di Venezia. Rapporto che deve tener conto, inoltre, del ruolo di primo piano svolto dalla Serenissima nella diffusione della conoscenza della lingua e della cultura italiana, ancor prima delle celebri Prose della volgar lingua del Bembo. In ambito amministrativo ma anche culturale, tra le classi sociali più elevate, si assiste così alla nascita di un idioma scritto caratterizzato dalla compresenza di elementi veneti e toscani ribattezzato, dai filologi moderni, con il nome di “tosco-veneto”. Lingua ufficiale a tutti gli effetti, che ancor oggi, a distanza di secoli, permette di riflesso a queste parlate di trovare accoglienza in molti pubblici uffici. Questo dialogo antico tra mondo toscano e veneto, sviluppatosi già in epoca medievale per esigenze commerciali, vissuto con minore o maggiore consapevolezza fino ad insinuarsi nella vita di tutti i giorni, ci aiuta inoltre a comprendere meglio e contestualizzare a fondo la presenza di numerosi italianismi (fino ad arrivare a vere e proprie forzature) nei poeti e scrittori di area linguistica veneta nati prima del XX secolo, da Baffo a Goldoni, da Noventa fino a Marin. Dopo la grande stagione della cosiddetta “poesia neodialettale”, caratterizzata da una riscoperta e valorizzazione dei tratti distintivi dei vari idiomi locali, sull'esempio delle ricerche del giovane Pasolini, questi “corpi estranei” all'interno del testo, spesso mai impiegati dai parlanti del luogo, ci appaiono spesso come elementi disturbanti. Per i poeti delle generazioni precedenti, molto probabilmente, invece, questi inserti erano visti ancora come occasioni importanti per ribadire l'appartenenza ad una medesima origine, riavvicinare e ricomporre ciò che nel tempo si era frammentato, disperso, in un'idea elevata di nazione ancora libera dalle cupe ombre dei nazionalismi.