Pubblichiamo qui un estratto di "Stile Alberto" (Quodlibet edizioni), il nuovo libro di Michele Masneri. Saggio-memoir, è soprattutto una specie di taccuino, il taccuino dell'ossessione dell'autore per Arbasino, scrittore prima ammirato da fan e poi conosciuto e frequentato. Ci sono anche molte carte, lettere, cartoline (erano il suo mezzo preferito). E fotografie di Paolo Di Paolo, storico fotoreporter del Mondo. E un'opera di Francesco Vezzoli, che partendo da arca fotografia ha creato la copertina Omaggio a Paolo Di Paolo (Arbasino piange lacrime di Maria Callas): riferimento alla Milano degli anni Cinquanta, quella narrata nell'Anonimo Lombardo.
Quando era in buone, ed eri fortunato, Alberto ti spiegava poi lui chi erano i veri
Fratelli d'Italia: chi era Dcsideria, la sua gran
dama protagonista; e per quale motivo Umberto di Savoia in esilio era molto più interessato a certe stoffe in casa di amiche che non a
improbabili restaurazioni sul trono, e chi era
quel ministro che diceva a un giovane carne
riere del Toulà: "la notte non dormo perché
penso sempre a te", e quello gli rispondeva:
"pensi all'Itaglia, ecelensa, pensi piuttosto
all'Itaglia"; e chi, ancora, era davvero la contessa Gazzaniga, una Madame Verdurin letterata e intrallazzona che non sapeva pronunciare o riconoscere William Somerset Maugham, salvo averlo una sera a cena a sua insaputa, e quindi rincorrerlo giù in strada per
festeggiarlo adeguatamente.
La Gazzaniga, patronessa forsennata delle
arti, è alleata di un poeta lamentosissimo e
molto attento alle dinamiche del potere, cioè
poi Eugenio Montale (nel romanzo, il poeta
Arcangelo Elvezio Bustini). E "the real" Montale era ospite fisso di donna Miniina Brichetto Arnaboldi, tenutaria di un leggendario salotto letterario in via Sant'Andrea a Milano,
frequentato anche da Einaudi, Verga, Pirandello e Piovene. E Benedetto Croce: la foto
del filosofo insieme alla nonna troneggerà
poi sulla scrivania di Letizia Brichetto Moratti quando fu ministro dell'Istruzione, a Roma.
Ma la Gazzaniga viene soprattutto da un'altra
"donna", Giuseppina Crespi, moglie di un
proprietario del "Corriere", che appunto si
ritrovò in casa Maugham quando era troppo
tardi. Lei alle presentazioni aveva sentito, capito, un indefinito "Mmmm", e non Maugham
com'è scritto. Troppo tardi. "Abbiamo in casa
un libro suo da fargli autografare?", chiese
disperata la vera Crespi al marito editoriale
Aldo. "Abbiamo troppi libri, ecco perché poi
ci confondiamo", rispose con rimprovero lui.
Tutto questo gustoso "dietro le quinte"
non era compreso nel prezzo dei libri ma veniva fuori parlando con Alberto. Della Gazzaniga e del re in esilio che si dava alla inferior
decoration conversammo nel famoso viaggetto nelle Marche. Lui era affabile, cortese,
molto disposto al racconto e al gossip d'epoca: scoprii emozionato che parlarci era davvero come stare in Fratelli d'Italia. Molto repentino nel cambiamento d'umore, anche;
aggressivo con eventuali disturbatori, come
ho detto. Capace di grandi digressioni, e improvvisi silenzi. E, a posteriori, in quella gita
in provincia lo ricordo particolarmente scatenato. Tutti lo appellavano alternativamente "professore" e `maestro", cosa che lo faceva sogghignare, ricordando Giorgio de Chirico che a chi gli chiedeva "come la dobbiamo
chiamare?", rispondeva come nell'antica
pubblicità: "chiamami Peroni, sarò la tua birra".
Fece la sua "conferenzina" (i diminutivi
gli servivano per polverizzare ogni altisonanza trombona), e si divertì a épater il pubblico
locale divagando su un certo don Seppia, prete in odor di pedofilia, di cui erano uscite in
quei giorni delle intercettazioni da paura ("...
e mi raccomando l'età... perché sedicenni sono già troppo vecchi... procurami un ragazzo
dal collo tenero...''): interrogato da qualche
giornalista, invece che ricorrere a parole di
sdegno conforme rispose che trattavasi certamente di un dilettante, insomma un caso minore, rispetto a grandi pedofili del passato:
scatenando tra lo sgomento generale quella
vena che ogni tanto lo prendeva.
"Il demone insidioso del dottissimo Arbasino", sosteneva del resto il suo amico e critico Paolo Milano, "la sua spicciola dannazione, è la frivolezza. Torna spontanea alla memoria la splendida definizione di Marcel
Proust: 'La frivolezza è uno stato violento'"
(L'Espresso, 23 agosto 1959).
Dopo la conferenzina, si andò a un picnic
di magnati locali dove si discuteva soprattutto dell'autonomia di volo di vari tipi di aerei
privati utilizzati per andare ad acquistare
certi prosciutti speciali in Spagna (si era agli
albori della moda del Pata negra). Questi
tycoon presentarono ad Alberto una loro giovane nipote desiderosa di darsi alle Lettere.
Era una situazione meta-arbasiniana, sembrava di stare dentro Fratelli d'Italia, e ricordo perfettamente Alberto seduto su una
balla di fieno con un gin and tonic in mano,
che diceva "cevto, cevto", arrotando sempre
più le erre, subendo le lodi di questa erede e
dedicandosi piuttosto ai nostri calzini: "belle
soprattutto le righine", per distrarsi dall'horror. Ma dentro io tremavo: ecco altri tapini
che evidentemente non avevano mai letto il
"maestro": non sapevano di star facendo la
parte di una contessa Gazzaniga odi un poeta
Bustini. Il vaffa era sempre in agguato.
Con Alberto era un'impressione molto frequente, quella di stare dentro la sua operamondo. Era anche difficile, per soggezione,
differenza di status e di età, intavolare con lui
una conversazione, nel terrore di svelare il
nostro essere provinciali. Di cosa mai potevamo parlare? Di qualche giovane scrittore, che
avrebbe ispirato subito un'alzata di sopracciglio? Di uno spettacolo, di cui lui certamente
aveva visto un'edizione incommensurabile e
non più replicabile a Buenos Aires o New
York trent'anni prima? Della mia vita? Peggio ancora. Era talmente limitata, all'epoca.
Con l'aggravante che le cose più interessanti
mi sembrava di averle vissute e imparate grazie ai suoi libri, dunque una vita di secondo
grado, di cui lui era la fonte.
Dormivamo nello stesso albergo. Andammo a cena: lui fu normalmente cordiale, ma
non particolarmente voglioso di socializzare.
Il giorno dopo si alzò presto; lo trovammo a
fare colazione al bar con Corriere e Repubblica già letti. Io gli giravo intorno con l'impressione di camminare sulle classiche uova.
In macchina, per tornare a Roma, l'amico
Gianluigi mi disse: vai dietro tu, con lui, che
io sto davanti. Si mise accanto all'autista della Mercedes, lasciandomi la responsabilità
di conversare col mio idolo. Io, felice e angosciato per quel compito, tre ore seduto accanto ad Alberto. Feci un tentativo: buttare lì
delle parole-chiave, dal suo romanzo, e vedere come reagiva. E così: Umberto a Cascais,
ministri innamorati dei camerieri, contesse e
poeti. E come mai Gadda detestava tanto Foscolo? E Pasolini, era vero che pagava quei
ragazzotti per farsi malmenare? E come mai i
castelli di Ludwig non erano mai stati finiti?
Mi sentii un po' patetico, come infilare delle monetine in un prestigioso e antico jukebox. Ma funzionò: lui si sentì forse a suo agio,
in quella comfort zone da lui stesso creata tra
i suoi personaggi e le sue situazioni, senza
mai dover toccare alcunché di personale.
Tranne quando voleva lui, naturalmente: "E
Rauschenberg, l'ha conosciuto?", chiesi timidamente alla fine di non so quali discorsi.
"Altroché conosciuto, l'ho proprio fatto", rispose con orgogliosa civetteria, e con questo
uso interessante del verbo "fare": non come
generalmente si adopera, nella forma riflessiva. Ma era un modo dell'epoca, mi confermarono poi degli esperti.
All'arrivo, Alberto venne ovviamente depositato per primo; poi Gianluigi, poi io. Alla
fine mi accorsi, con l'autista, che in macchina
erano rimasti degli occhiali da vista, insieme
a una bizzarra penna con la silhouette di Elisabetta d'Inghilterra, uno di quei gadget trash che si comprano a Londra. Erano chiaramente di Arbasino. Dissi che avrei provveduto io a restituirli. Confesso che a casa mi provai quegli occhiali, allo specchio. Ci giochicchiai un po'. Anche con la penna. Covai insomma per un po' quei feticci arbasiniani, e
solo dopo un paio d'ore mi decisi a telefonargli per restituirli (ah, il mitico numero fisso, a
cui, per la prima volta, non riattaccai subito
dopo la minacciosa segreteria, e rispose la
voce umana).
Per chi non ha avuto un idolo è difficile
spiegare cosa vuol dire finalmente andare a
suonare al suo campanello, salire a quel pianerottolo coi libri accatastati e le due A giganti (da tomba di famiglia) sulla porta.
L'ascensore era salito talmente piano da lasciarmi immaginare infinite versioni di quello che mi aspettava: mi avrebbe fatto fare un
giro della casa? Mi avrebbe offerto da bere?
E cosa? Gin and tonic, ovviamente. Anche se
era presto. Arrivato finalmente al piano, dopo un'ascesa che mi parve lentissima
nell'ascensore ligneo e signorile, andai, solenne, incontro al mio destino.
Lui, incredibilmente, era in accappatoio,
un incongruo accappatoio di spugna, bianco,
con delle ciabattine di plastica, da piscina.
S'era finalmente levato ogni travestimento?
Era un Arbasino grado-zero? E però: su un
tavolino, ecco un secchiello con in ghiaccio
dello champagne, Fratelli d'Italia,
una volta? Ma lo champagne a uno sguardo
più ravvicinato si rivelò essere spumante italiano, cosa che mi sorprese molto. Neanche
Franciacorta: proprio tipo Asti Cinzano. Anzi
sì, era proprio Asti Cinzano, dolce, da pacco
natalizio. Ne bevvi parecchio, per reggere la
tensione di quell'incontro fondamentale.
La casa: una gran biblioteca con una Waste
Land con dedica autografa di Eliot che mi
mostrò orgoglioso. Un angolo-studio piuttosto
monacale, con la massiccia Olivetti elettrica
su cui aveva composto gli ultimi Fratelli (che
emozione). E il fondamentale fax. Poi, a contrasto, un lungo corridoio con tappezzeria a
righe e soffitti a pannelli cangianti, illuminati, da Studio 54, che conducevano alla zona
notte; lì sotto mi inquietai davanti a un quadro di Pasolini che si era ritratto con Alberto:
con le loro due facce sovrapposte, in carboncino, simili in maniera sinistra. Ma la sorpresa maggiore fu il terrazzo, con le gardenie
amorevolmente allevate: pareva veramente
difficile immaginarlo innaffiare una pianta,
prendersene cura, un atto così banalmente
quotidiano. E forse cogliendo il mio stupore,
o forse sentendosi messo a nudo in quella dimensione troppo normale e quotidiana,
guardò giù dal terrazzo e disse: "Gli studenti
di oggi. Eccoli lì, che brutti". E poi mi congedò, improvvisamente. Fine dell'intermezzo:
aveva da fare.
Io scesi a piedi, mezzo ubriaco di Asti Cinzano, senza capire cosa fosse successo (l'avevo annoiato? avevo detto o fatto qualcosa di
demenziale?), non prima di avergli ridato occhiali e penna della regina Elisabetta. Mi ritrovai a vagare lì sotto, tra qualche sparuto
marinaretto in uscita dal ministero, e lui che
chissà se da lassù tra le gardenie mi avrà
guardato ghignando, nel suo accappatoio di
spugna. Abituato a respingere gli assalti dei
fan, o forse solo sollevato e felice di poter
stare, finalmente, per i fatti suoi, senza maschere.
i...] Nella casa di via Gianturco Alberto
abitava solo, col fidanzato Stefano (ma entrambi avrebbero aborrito la parola) occasionalmente di passaggio da Milano. Lui era
"l'amico Stefano", come veniva chiamato: ufficializzato e citato e introdotto gradualmente nella vita sociale dagli anni Ottanta-Novanta, a Roma, anche se sicuramente circola
da prima, dai Sessanta; gli rimarrà accanto
fino al 2018, quando muore, inopinatamente,
prima lui (mentre, essendo parecchio più
giovane, tutti noi lo consideravamo il classico bastone della vecchiaia per Alberto). Questo imponente e simpatico giovanotto lombardo, Alberto pare che l'avesse incontrato
in epoche remote sotto casa, tra gli studenti e
i marinaretti. Qualcuno sostiene che fosse
proprio un marinaio (ma tutto questo forse è
troppo arbasiniano). Poi era stato sottoposto
a intensa rieducazione, tanto da diventarne
un alter ego (ma nella corporatura lo sovrastava). Addirittura ribattezzato in onore di
Stephen Dedalus, dall'Ulysses, ma all'anagrafe Romolo. Stefano-Romolo è l'amore della vita di Alberto. Nella morte però il suo nome non comparirà da nessuna parte: conseguenza estrema e coerente, danno collaterale del "finché una cosa non viene nominata
non esiste e rimane invisibile anche se la si
fa". Che tristezza però. Che rabbia. Solo Giovanni Agosti lo nominerà nell'articolo per il
manifesto. Come feci anch'io nel mio pezzo,
sul «Foglio», e lo citammo anche nel necrologio
sulla «Repubblica», con Alessandra, perché il
suo nome non fosse totalmente inghiottito
dall'oscurità.
Nell'ultimo anno e mezzo, morto Stefano,
Alberto stava a Milano, accudito dal fratello
Mario, dai nipoti e dal badante Nicola. Ma ai
tempi d'oro, insieme erano magnifici, Alberto e Stefano: si presentavano praticamente
identici, pantaloni grigi, camicia bianca o azzurra, cravatta regimental o a disegnini Hermès, blazer blu, Stessa erre moscia, stesso
humour. E poí, man mano che gli anni passavano, Stefano affettuosamente vigile a completare qualche frase d'Alberto rimasta a
metà; ma sempre attentissimo a non togliergli mai la scena. Un mazzo di fiori a testa,
"uno per la mamma e uno per la figlia", quando cominciò la più assidua e definitiva consuetudine: fatta di piccole cene organizzate
da Alessandra in terrazza a Monti o per Pasqua a casa di sua madre Bianca a San Salvatore in Lauro. Ma qui siamo già alla fase ultima della nostra frequentazione.
Oltre ai fiori c'erano spesso grosse sporte
di nuove edizioni che le case editrici gli inviavano - e Alberto grandiosamente ignorava, ben saldo al principio che s'era dato, di
leggere solo cataloghi d'arte o biografie e non
certo i "romanzetti" di qualche "smandrappato'; e dunque portava in dono questi borsoni di candidati allo Strega, ancora intonsi nel
cellofan. O anche ovetti di cioccolata pasquali in cestino, con pulcini di peluche. A casa
Riccio, tappezzata di volumi tra cui i saggi
della padrona di casa (sulla viaggiatrice da
grand tour Mary Berry o su Praz), venivano
serviti gli aperitivi nel salone con vista sulla
chiesa, tra discorsi che erano microsaggi su
mondi finiti (viaggi in India da fondamentali
maragià, opere e crociere con la Callas, complicati pettegolezzi londinesi-lodigiani-americani-palermitani. "E Gioacchino?"), sotto
un gigantesco dente di narvalo (la bizzarria
antiquaria era un'altra dimensione arbasinesca). Il marito di Bianchina, Gigi Bianchi,
maestro di giornalismo serio, ascoltava divertito tutto quel teatro. Poi ci si alzava per
andare a tavola, con servizio d'altri tempi e la
governante Amparo a dirigere il traffico verso la sala da pranzo. Io assistevo emozionato,
consapevole di vivere la cosa più simile a un
salotto proustiano, e la fine di un mondo in
estinzione (in una specie di gioco di specchi:
questi mondi in estinzione, si estinguono continuamente. Sarà stata la stessa sensazione
provata da Alberto quando andava a stanare
gli ultimi mostri sacri, a sua volta?).
[...] E poi spariva, ancora una volta: Bianchina mi raccontò di un viaggio in Yemen con
Alberto, che improvvisamente scomparve
una notte, alzandosi semplicemente da tavola per non tornare mai più. Lasciò un biglietto per scusarsi e non far preoccupare, e solo a
viaggio finito si seppe che gli era morto un
fratello amato (era fatto così).
E anche la sua scomparsa definitiva sembrava seguire quel format: andarsene era la
sua specialità. Così quando nel 2018 ero tornato dagli Stati Uniti (una specie di Erasmus
californiano fuori tempo massimo, col suo
America amore mastodontico naturalmente
in valigia, la foto di Elizabeth Taylor-Cleopatra su fondo rosso, che mi portò fortuna), al
numero di casa di Roma non rispondeva più
nessuno. Neanche la segreteria. Alberto risultava a Milano con Stefano. Nel frattempo
Bianchina era morta in febbraio e poco dopo
morì pure Stefano. Anche al numero di Milano, nessuna risposta.
Un giorno però Luca Rigoni, un altro amico del gruppo dei `giovani", improvvisamente mi scrisse: l'ho trovato. Sono riuscito a parlarci. Il messaggio arrivò un pomeriggio del
2019. Era stato avvistato, in un parco nel centro di Milano, col badante Nicola. Alessandra, la più organizzata di noi, partì, e li andò a
incontrare ai giardini. In questo modo avemmo notizie regolari di Alberto, accudito con
affettuoso-lombardo riserbo dal fratello Mario, fino al 22 marzo 2020. E li per tanti di noi
finì proprio un mondo.
Ho saputo dopo che avrebbe voluto un funerale a Roma, nella chiesa di Santa Maria
del Popolo, la chiesa degli artisti, come Gadda. E aveva lasciato anche una somma, al parroco. Ma poi, con la ritirata a Milano, i parenti avevano progettato il Duomo. Neanche
quello. Col primo lockdown gli è toccata una
fine oscura, senza celebrazioni. Molto manzoniana, però, nel mezzo della pestilenza.
[...] Quando le cenette e i pranzetti aumentarono, e i viaggi esteri (suoi) diminuirono,
pensai che a Roma Alberto avesse piacere di
un nipotino molto low profile che magari lo
accompagnasse senza impegno a qualche
mostra, a bordo della mia piccola spider, non
Mg ma Mazda, usata (erano cambiati i tempi e
i business model, l'avevo premesso). Non
aveva piacere. Invece, cartoline e ritegno.
Anche reciproco, perché da lombardo anch'io, mai avrei voluto nemmeno sfiorare
l'orrido terreno dell'invadenza. A proposito,
c'è un incontro tra Gadda e Visconti, in Fratelli d'Italia, che ben sintetizza un caso di
gran ritegno reciproco lombardo: "L'avevano
convinto a una colazione con Luchino Visconti, alla quale i due hanno fatto di tutto
per sottrarsi. Però poi, in pieno blu da mattina tutt'e due, su un bellissimo attico fiorito,
dopo aver finto un pochino di non conoscersi,
l'uno più impacciato dell'altro, si erano lasciati sfuggire un `sì, siamo stati presentati a
Milano tanto tempo fa da Gorgerino'... E allora tutti, posando lo champagne appena versato: Gorgerino! Ah, Gorgerino! Cosa c'è sotto?
Chi sarà mai Gorgerino? E subito, con fazzolettini e fazzolettoni, tutto un improvvisarsi
delle gorgiere immaginarie intorno al collo
sempre più secentesche e spagnolesche e barocche ("borromaiche!" bofonchiò lui). Tutto
un Frans Hals che piacque pochissimo".
(Fratelli d'Italia cit., p. 647).
Dunque, timidissimi approcci goffi. Neanche lo intervistai mai, per un'altrettanto goffa ansia di disturbarlo, o di fargli domande
troppo fesse. Nel 2015 la casa editrice minimum fax gli mandò un mio romanzetto appena uscito, lui rispose con cartolina (Duomo di
Milano su cielo azzurro, "Auguri!, auguri!").
E poi c'erano incontri last minute cordiali
ma non programmatili. Da Bianchina o per
altri versi, quando capitava (e io, lì, gli scattavo qualche foto di nascosto e prendevo appunti).
Come per una cenetta a tre, casuale e imprevista, nel luglio 2015, con Stefano all'Harry's Bar su in cima a via Veneto (un posto
bizzarro, lussuoso e insensato, frequentato
quasi solo da stralunati turisti americani,
non so perché gli piacesse. Vi venne accolto
con molto sussiego come "professore". Di
nuovo, "chiamami Peroni"). Ci andammo insieme dopo l'inaugurazione della mostra
Couture/sculpture con abiti di Azzedine
Alala tra i Bernini della Galleria Borghese;
lui e Stefano erano in azzurro chiaro, tutti e
due, in giacca, senza cravatta, per il gran caldo. Alberto era stanco, ma volle comunque
andare a piedi (poi pentendosi, ma non abbastanza da ammettere di aver bisogno di un
taxi. "... Ma quegli autobussetti elettrici non
passano?"). E poi a tavola, menu da campioni: riso al salto, roast beef', vino rosso, whisky.
Conversazioni impeccabili. A un certo punto
andò in bagno, e ne uscì dopo moltissimo
tempo. Nel frattempo, io, preoccupato e perplesso. Che fare? Andare a vedere se era tutto a posto? Non scherziamo, disse Stefano
(Stefano paziente, santo Stefano). Provare a
chiedere ad Alberto se stesse poco bene era
un'altra impresa vietatissima: lui tornò a tavola, traballante e verdognolo in faccia, senza minimamente accennare a ciò che era accaduto. Si riprese la conversazione: musei,
leggende, arte, mostri sacri. Never complain,
never explain. E poi dopo "Auguri!, auguri."',
"A presto!, a presto!".
Sentimentale o no, Alberto, lo capii tardi,
con grandissimo errore di valutazione, era e
voleva essere solo un ragazzo. E i ragazzi non
hanno né figli né nipotini: fanno come gli va.