Recensioni / Ma che cosa pensava Ghirri di Ghirri?

Le foto di Luigi Ghirri ispirano sensazioni di serenità malinconica, di quiete, di dolce abbandono. E nonostante la battaglia di Ghirri contro lo stile (o forse proprio per questo), possiedono una riconoscibilità quasi immediata anche per gli occhi di un osservatore poco allenato.
Ma capita che le sue foto determinino una domanda, quella a cui difficilmente si rinuncia, ovvero: cosa significano? Che senso ha fotografare alcuni ombrelloni della spiaggia di Rimini, una strada provinciale dellabassapadana, due anziani escursionisti sull'Alpe di Siusi?
Diciamola tutta. Ghirri piace anche se non lo si capisce. Ma per potersi addentrare nei motivi che stanno dietro allasuafotografia, per continuare a provar piacere davanti alle sue foto e comprenderle, diventa indispensabile la lettura degli scritti che in molte occasioni Ghirri proponeva insieme alle immagini.

Allargare lo sguardo
Ora possiamo farlo grazie alla ponderosa raccolta di testi proposta dall'editore Quodlibet col titolo Niente di antico sotto il sole, che ci permette di allargare lo sguardo, di andare nella testa dell'autore. Se ne ricava un'idea, quella che Luigi Ghirri sia stato un vero artista-intellettuale, che, parallelamente a uno scrittore come Gianni Celati, attraverso la fotografia ha fatto ricerca, cercando di andare oltre i tradizionali confini del genere. Così per chi non lo conoscesse la lettura offre percorsi di straordinaria ricchezza, per chi già lo apprezza a colpire è invece la complessità, la profondità dei punti divista, la consapevolezza, la cultura del fotografo emiliano, che fanno di lui un pacifico rivoluzionario.
Come scrive in Opera aperta, forse il più illuminante degli interventi raccolti nel libro, la fotografia è per Ghirri una «grande avventura del pensiero e dello sguardo», ovvero, un «giocattolo magico che riesce a coniugare miracolosamente la nostra adulta consapevolezza ed il fiabesco mondo dell'infanzia». Per spiegare il suo percorso, Ghirri si paragona ad un pittore descritto da Borges che «volendo dipingere il mondo» fa quadri «con laghi, monti, barche, animali, volti, oggetti» e, alla fine della vita, mettendoli insieme tutti, si accorge che l'immagine che ne esce è quella del suo volto. Anche Ghirri assembla il mondo e ritrova se stesso, lavorando a progetti, rifiutando lo scatto casuale. La tecnica è quella del mosaico o del puzzle, dove ogni immagine, pur essendo in sé autonoma, rimanda ad un insieme. Da qui la sua insaziabilità, l'instancabile lavoro su una enorme quantità di soggetti, «per la curiosità di capire tutto quello che mi era e mi è possibile».
La convinzione è che la fotografia sia «un linguaggio per vedere e non per trasformare, occultare, modificare la realtà». Il suo scopo è vedere il mondo, facendolo di nuovo parlare. La condizione necessaria è quella di aprirsi alle cose, lasciandole libere di ritrovarci. Per cui «il silenzio, la leggerezza, il rigore» devono avere la meglio sullo «choc visivo-emozionale». Fare fotografia, come insegna l'americano Walker Evans, che Ghirri individua come suo principale punto di riferimento, significa capire e non colpire.

Il rifiuto
La conseguenza di questo atteggiamento è l'essersi trovato spesso in contrasto con gran parte del mondo della fotografia, affascinato dall'idea dell'immagine che lascia a bocca aperta. Ghirri rifiuta il «rifugiarsi nell'emozione del colore, nella ripetizione ossessiva, nell'uso ripetuto e stucchevole dello stile, nella catalogazione, nelle esasperazioni formali».
In particolare gli appare pericolosal'idea della «fotografia come afasia del vedere, anticamera per l'anestesia dello sguardo». Quanto vuole evitare è la fotografia come «riproduzione di se stessa». Il suo compito è semmai opposto: la fotografia deve diventare «un momento di riattivazione dei circuiti dell'attenzione, fatti saltare dalla velocità dell'esterno».
Una fotografia che attraverso nuovi percorsi ed evitando le idee ricevute cerchi quindi di entrare in rapporto con quanto c'è, «per restituire immagini, figure, perché fotografare il mondo (è) anche un modo per per comprenderlo». La fotografia diventa allora «un non marginale momento di pausa e di riflessione», che deve evitare, per assolvere il suo proposito, di nascondere ciò che vede, perché «vedere è l'aspetto magico della fotografia e habisogno più di leggerezza e di trasparenza, che non pesanti armature». Per arrivare allo scopo, per vedere finalmente quanto ci sta attorno, liberandolo dalle incrostazioni del già visto, per ritrovare la meraviglia e non aver paura di quella inevitabile banalità che è ovunque, è però necessaria una "relazione d'affetto" con i luoghi, con le cose e con ivolti. Questa è lavia attraverso cui gli spazi e le persone possono «diventare riconoscibili, familiari, abitabili o forse semplicemente si rivelino di nuovo al nostro sguardo». Perché Ghirri è dell'idea, in definitiva, che cose, spazi e volti aspettino «semplicimente qualcuno che li guardi, li riconosca, e non li disprezzi relegandoli negli scaffali dello sterminato supermarket dell'esterno».
In fondo il percorso di Ghirri è affascinante nella sua complessa semplicità: posto in mezzo ad un mondo che «da abitabile e conoscibile» è «diventato per incanto misteriosamente sconosciuto», il suo compito è stato quello di recuperare le cose sepolte sotto le immagini che si sono stratificate e consolidate, di andare verso di loro senza impalcature, riabituando lo sguardo ad osservare.

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