Recensioni / Michele Masneri: «Vi racconto il mio Arbasino, for dummies e per ossessionati»

Stile Alberto (Quodlibet) è un trattato d'amore verso il proprio idolo. L'autore è Michele Masneri – giornalista e scrittore classe 1974, spesso (anche) sul «Foglio» e che l'anno scorso per Adelphi ha pubblicato Steve Jobs non abita più qui – e l'Alberto del titolo, ovviamente, è Alberto Arbasino. Uso questo avverbio, "ovviamente", perché chiunque lo conosca sa quanto sia legato al protagonista del libro. Nella scrittura, nei riferimenti colti, nel modo stesso di intendere la vita e mettere mano al costume e al suo racconto. Mi dice: «Per anni mi ha ispirato, e anche un po' ossessionato». Le mostre, i borghesi, le mode, la satira, l'ironia. Siamo lì. Infine l'ha conosciuto, si è concesso un piccolo scorcio privilegiato sulla vita privata del maestro, e quindi eccoci qui.
Un po' enciclopedia – dentro c'è tutto, dagli esordi nel Gruppo 63 come scrittore ai reportage, dalle relazioni sociali ai tic, passando per la politica, la vita al servizio della scrittura e viceversa, rivalità con Capote, l'onnicomprensivo Fratelli d'Italia, l'omosessualità, maschere e aspetti «umani» – e un po' racconto intimo di adesione a quello che, all'epoca dei fatti, era un vero culto, prima della riscoperta televisiva degli anni Duemila. Oltre che libro agile e particolare, con in mezzo foto sepolte, appunti, reperti, "inserti" veri e propri. Un diario – personale, universale – su Arbasino, insomma.

Da dove nasce l'idea di un formato del genere?
All'inizio era un normale libro, poi insieme a Giovanni Agosti, storico dell’arte e amico di Alberto, abbiamo avuto quest’idea di metterci delle fotografie. Allora mi sono ricordato delle foto di Paolo Di Paolo, fotoreporter leggendario del Mondo, lo stesso giornale per cui Arbasino ha fatto i primi reportage. Molto gentilmente mi ha concesso alcune foto, non solo di Alberto ma anche di Gadda, di Pasolini, della Roma degli anni Cinquanta. Francesco Vezzoli, poi, da un ritratto fatto da Di Paolo ha creato l’opera di copertina. E Giovanna Silva mi ha dato alcune foto di casa Arbasino con cui abbiamo fatto un inserto molto “pop”, patinato e a colori, ispirato al Weekend postmoderno di Tondelli. Nel libro ho voluto anche metterci dei reperti, vecchi articoli scansionati, biglietti da visita, foto che scattai io ad Arbasino, mie foto con lui, e le cartoline soprattutto, che lui mandava sempre. Per dare l’idea di un taccuino, per renderlo anche un oggetto un po’ artistico, visuale.

Perché l'hai scritto?
Per due motivi. Il primo, per chiudere i conti con questa figura che per anni mi ha ispirato, e anche un po’ ossessionato. Quando è morto ho cominciato a buttarlo giù, mettendo insieme anche cose che avevo scritto in precedenza, oltre ad appunti che prendevo quando lo vedevo. Dall’altra parte, mi piaceva anche fare un “Arbasino for dummies”, soprattutto per i giovani, per rispondere alla domanda che spesso mi fanno. Cioè: “da dove dovrei cominciare a leggere Arbasino?”.

Eh, appunto, da dove?
Direi da Fratelli d’Italia, che è il suo libro fondamentale, che contiene un po' tutto il suo pensiero. Molti pensano non sia una lettura facilissima, ma si può comunque affrontare "a pezzi", a episodi. Ci sono interviste e reportage, ma è anche un romanzo e un saggio. Pure dovessi suggerire qualcosa solo ai giovanissimi, la risposta sarebbe ancora Fratelli d’Italia. La chiave è l'ironia: è un testo che – come gran parte della sua produzione – fa ridere, contro le stereotipo per cui la cultura sarebbe noiosa. Certo è molto colto nei riferimenti; ma lui si divertiva, scrivendo, e i lettori di conseguenza con lui. Anche se non conosci tutto ciò che cita, ti viene voglia di andare a documentarti in merito. Anche io ho vissuto questa sensazione, quando l'ho scoperto.

Per te è stato un maestro.
E un modello sotto molti aspetti, sicuramente di giornalismo e di scrittura, oltre a una figura leggendaria per le sue frequentazioni, lo stile di vita, la cultura vissuta come divertimento e non come prescrizione scolastica. Quando l’ho scoperto, cioè prima di Internet, si potevano leggere le paginate coltissime e a volte incomprensibili che faceva per «Repubblica» e «Corriere», oppure delle letterine che puntualmente mandava alla «Stampa» e al «Foglio», molto ironiche e divertenti. Adelphi non aveva ancora ristampato i suoi libri, per cui si potevano trovare sparsi per varie edizioni soprattutto in librerie dell’usato. Non andava in televisione, diciamo che era in una fase di mezzo dopo la celebrità e prima di quella del recupero mainstream degli anni Novanta-Duemila, avvenuto anche grazie alla diffusione dei suoi testi, finalmente ristampati. È diventato famoso in senso stretto, nel senso che andava ospite da Fabio Fazio, per dire. Mettiamoci pure che, nella dialettica, era molto televisivo, e il quadro è completo.

Dopo la riscoperta, il suo culto come sta?
Non saprei, è una bella domanda. Bisognerebbe chiederlo ai giovani, se qualcuno lo legge, lo conosce, sa chi è. Certo è diverso da prima, perché quando era vivo lo vedevi in tv e almeno una volta alla settimana lo leggevi sui giornali; ora bisogna fare affidamento ai libri per trovarlo, ma non so quanto effettivamente vendano.

Il tuo rapporto con lui, invece, com'è stato?
Non siamo mai stati "amici" in senso stretto, c'era sempre da parte mia un senso di soggezione e rispetto dovuto anche all'età – l'ho conosciuto che era anziano, ovvio. Però molto buono. Era gentile, simpatico, ironico. Lui era il maestro, io aspirante allievo.

Che tipo era?
Era elegantissimo, mai fuori posto, molto ironico. A volte distante. Credo mascherasse una certa timidezza con un grande autocontrollo. La vecchia storia del “never complain, never explain”.

Aveva maschere, Arbasino?
L’aspetto era quello di un ambasciatore, o un industriale molto chic, non certo lo scrittore classico stazzonato e scarmigliato. Nei suoi completi o spezzati, le cravatte a piccoli disegni, la rosetta al bavero di Cavaliere di gran croce, tra signore e salotti. Anche se poi era un lavoratore indefesso, oltre che uno studioso pazzesco: ma non lo faceva certo notare, perché faceva tutto parte di quello stile – ancora – per cui bisognava non far mai trapelare pesantezza, e invece essere leggeri, piacevoli, possibilmente ben vestiti e non brutti.

Lo "stile" del titolo, no?
Lì mi riferisco soprattutto allo “stile” che per lui era tutto, nel senso innanzitutto della lingua dei suoi libri, tema principale del suo lavoro, la ricerca di uno stile espressivo per raccontare la realtà; e poi, sì, "stile" inteso come eleganza personale, attenzione al dettaglio. E "stile" anche emotivo, cioè evitare le sbavature, le smancerie.

Però c'è stato qualcosa che, dopo averlo conosciuto di persona, da vicino, ti ha sorpreso?
Una volta, mentre ero ospite a casa sua, ho visto che aveva tantissime piante, di cui si prendeva cura. Mi ha colpito: mi faceva strano pensare che uno come lui, che ci teneva molto a mostrarsi distaccato, spendesse del tempo a innaffiare le piante. È stato un po' come scoprire il suo lato "umano", normale.

Ma chi è stato, quindi, Arbasino per l’Italia?
Un personaggio abbastanza anomalo: giornalista, romanziere, critico d’arte e musicale. E saggista, e per un po’ pure deputato al Parlamento. Soprattutto, direi, un “moralista”, non certo nel senso di bacchettone, ma di intellettuale che critica e narra i “moeurs”, cioè i costumi di una certa epoca. Come Balzac, come Proust, come Saint Simon, che non a caso erano nel suo pantheon.

Un pantheon che guardava molto all'estero, in effetti. Per questo lo definisci anomalo?
Perché è sempre stato poco italiano in molti aspetti. Era un intellettuale coltissimo, però si divertiva perché scriveva libri, viaggiava tanto all'estero. Non era interessato alla polemica, però è stato in Parlamento. Senza tra l'altro mai schierarsi a Destra né a Sinistra. Si faceva i fatti suoi, diciamo. Non era noioso. Nel modo di intendere la figura dell'intellettuale, era molto più americano – o almeno europeo – che italiano.

"Nato a Voghera, rinato a Roma": la sua è anche una storia di provincia.
Credo che le origini vogheresi siano state una forte spinta per scappare, per emanciparsi, per viaggiare: di solito la provincia fa questo effetto alle persone talentuose. Però lui non le negava assolutamente, anzi ne conservava un ricordo affettuoso: raccontava spesso storie di parenti, di professori che aveva avuto. Quando lo invitavano a qualche evento, andava sempre. È interessante che Voghera abbia generato tre personaggi nella Roma della Dolce vita: oltre a lui, lo stilista Valentino, e poi Maria Angiolillo, una famosa salonnière.

Appunto, Roma. Che città era, la Roma di Arbasino?
Una Roma oggi inimmaginabile, con Cinecittà che sfornava kolossal internazionali, Liz Taylor che faceva Cleopatra e abitava a via Veneto, Gore Vidal a largo Argentina, e poi Visconti, Pasolini. Era la Roma del dopoguerra, molto vitale e poco provinciale.

Oggi invece?
Oggi, in generale, fra internet e gli spostamenti facili credo che le differenze fra metropoli e provincia si siano un po' appianate. All'epoca, se nascevi a Voghera eri davvero tagliato fuori da tutto. Per quanto riguarda Roma, ne ho vissuto io stesso la decadenza. Sono arrivato negli anni Novanta, quando ancora c'era fermento culturale, con Rutelli e Veltroni. Si aveva l'impressione di essere al centro di qualcosa. Aprivano musei e gallerie d'arte, c'era un evento ogni sera. Ora è tutto fermo, finito, migrato altrove. La differenza si sente.

Te lo chiedo perché, leggendo Stile Alberto, ho percepito una certa nostalgia per quel passato. Non solo per Roma in sé, quanto soprattutto per il mondo del giornalismo, dell'editoria e della cultura in cui si muoveva Arbasino. Grandi ambizioni, relative libertà. Grossi budget.
Sicuramente il mondo che lui ha attraversato era quello del grande giornalismo, dei giornali che vendevano tantissimo e dunque pagavano tantissimo. Un mondo definitivamente chiuso e finito, oggi, anche se c’è da dire che Arbasino fu sempre un freelance, seppur di lusso. E aiutava una certa agiatezza di famiglia, per cui poteva partire per mesi e poi mandare i suoi reportage. Ma se “essere Arbasino” oggi sarebbe certamente impossibile, anche ai tempi suoi era arduo comunque.

Oggi un giovane Arbasino avrebbe le stesse chance?
Sarebbe ovvio rispondere di no. Però in un certo senso oggi è più facile farsi pubblicare. All’epoca lui esordì in poesia, trovandosi Pasolini come editor, che lo trattò abbastanza male. Oggi è molto più facile, direi che è quasi impossibile non farsi pubblicare. Oltretutto la critica è scomparsa. E poi con un uso sapiente di tutto l’armamentario social, Instagram, podcast eccetera, è più facile autopromuoversi.

A un certo punto scrivi anche che lui avesse previsto questo mercato culturale misero.
Nel senso che certi meccanismi non cambiano mai: un paese in cui tutti scrivono e nessuno legge, le scocciature delle richieste di prestazioni culturali gratis, le telefonate continue di chi ti chiede collaborazioni e poi sparisce, i gruppi intellettuali sempre più feroci uno contro l’altro. Poi, dopo, l’impoverimento generale e la crisi dei giornali hanno reso tutto ancora più estremo. Tra l'altro, non è mai stato davvero uno scrittore mainstream. Coltivava piuttosto un pubblico evidentemente colto, in grado di decifrare i suoi reportage e libri. I suoi lettori erano soprattutto raffinati signori un po’ agé; oppure giovani, spesso gay.

A proposito: quanto è stata importante la sua omosessualità nelle sue opere?
È un aspetto principale della sua opera. Da una parte è stato forse il primo scrittore ufficialmente gay in Italia. Quasi tutti i suoi libri di fiction hanno dei personaggi gay, alcuni sono sfrenatamente camp come Specchio delle mie brame. Dall’altra parte lui non è mai stato un omosessuale militante, nel senso che si è sempre tenuto ben lontano da movimenti e manifestazioni per la rivendicazione di diritti. Era per esempio contrario al matrimonio gay e – incredibile da parte di un perfezionista della lingua – confuse da qualche parte il coming out con l’outing. Temeva la ghettizzazione e le etichette in un’epoca in cui tutto era politico. È chiaro che tutto ciò oggi suona molto stonato, e però bisogna pure capire che Arbasino era un uomo del '30, e la sua è infatti una visione comune a molti della sua generazione. Con Pasolini, per esempio, erano su posizioni opposte su quasi tutto, ma su questo tema erano perfettamente allineati, anche nel rimpianto di un’Italia arcaica in cui l’omosessualità era meno definita e istituzionalizzata e più “rustica”.

Che rapporto aveva col politicamente corretto?
Lo criticava molto e lo prendeva molto in giro. È interessante perché lo faceva a fine anni Novanta, cioè trent’anni fa. Un’altra sua caratteristica era infatti di aborrire il “doppiaggese”, cioè i ritardi con cui i fenomeni culturali arrivano rimasticati in Italia. Viaggiando molto, conoscendo bene l’America, se ne occupò a tempo debito e non come oggi i cantori tardivi della “dittatura del politicamente corretto”, fuori tempo massimo.

Qual è la sua eredità?
Direi soprattutto due, la lingua, cioè ancora, lo stile, che rappresenta il miglior esperimento del Novecento italiano, e poi il racconto culturale e di costume. Fratelli d’Italia rimane un libro fondamentale per capire il paese del Dopoguerra. L’anonimo lombardo, che è il suo primo romanzo e che parla di una Milano anni Cinquanta, in pieno boom, è invece quello che ritengo più attuale per il 2021. Da leggere oggi, nella Milano post Covid che, speriamo, sta rinascendo.

Recensioni correlate