Recensioni / Judaica. L’eternamente vagabondo

Un pezzo d’uomo a piedi nudi, coi lunghi capelli che gli spiovono sulle spalle. Immobile, come impietrito, non perde una parola del sermone e ogni volta che sente il nome di Gesù Cristo si piega in avanti, si batte il petto ed emette gemiti: davvero una strana apparizione nella cattedrale di Amburgo. Paul di Eitzen, un giovane teologo, lo sta osservando un po’, gli si avvicina e lo interroga. Viene così a sapere che il tipo misterioso è “ebreo di nazionalità, e si chiama Ahasversus. Di mestiere calzolaio, era stato presente alla morte di Gesù cristo e da quel momento era rimasto sempre in vita”.
Dopo le prime battute cambiate con Paul, Ahasversus si dilunga sui dettagli della propria vicenda e narra la passione di Cristo, vista con gli occhi di testimone che da tantissimo tempo non può far altro che ricordare e macerarsi nel rimorso. Dice di essere stato uno degli accusatori di Gesù e di aver chiesto a gran voce la sua condanna a morte. Per schernirlo, lo aveva aspettato davanti casa, lungo il percorso verso il Calvario, e quando Cristo, gravato dalla croce, si era appoggiato alla sua porta, lo aveva schiacciato con ingiurie. Gesù lo aveva guardato impassibile e gli aveva detto: “Io mi fermerò e riposerò ma tu camminerai”. Da allora, Ahasversus aveva dovuto lasciare Gerusalemme e non si era più fermato, vagando di Paese in Paese, “taciturno e solitario”, in un’eterna penitenza.
Questo racconto, naturalmente apocrifo, è contenuto in un opuscoletto del 1602 e rappresenta forse la più articolata versione dell’antica leggenda dell’ebreo errante. A dire il vero, al suo primo apparire nell’immaginario europeo, nella prima metà del XIII secolo, l’ebreo errante non errava ancora, piuttosto era stato condannato da Gesù a restare in vita per aspettare il suo secondo avvento: “Egli, che al tempo della passione del Signore aveva circa trent’anni, ogni volta che raggiunge l’età dei cento anni è preso da una specie di malattia incurabile ed è come rapito in estasi ma ristabilendosi ritorna redivivo all’età che aveva all’epoca della passione di Cristo”. Prigioniero del tempo dunque, prima ancora che dello spazio, l’ebreo pagava la propria mancanza di fede con una faticosa immortalità.
Al mito di Ahasversus Marcello Massenzio ha dedicato uno studio basato su alcuni esempi salienti, sia letterari che figurativi. Al cliché della cultura maggioritaria il libro accosta il suo doppio/contrario in campo giuridico. Già nel tardo Ottocento, infatti, alcuni intellettuali ebrei si appropriarono di quell’immagine dell’irrequieto vagabondo, facendone un’icona di sradicamento. Così Maurycy Gottlieb dipinse nel 1876 un Autoritratto come Ahasver, in cui l’immagine dello sfortunato ebreo errante si fonde con quella aulica del biblico re Assuero, come per significare un ritrovato orgoglio.
Ma il caso forse più vistoso è la Crocifissione bianca di Marc Chagall, dipinta nel 1938, in cui al Cristo di forte connotazione ebraica, che campeggia al centro del dipinto, si accosta, sulla destra, la figura di un ebreo russo, che abbandona la scena con un pacco sulle spalle. Mentre nella leggenda cristiana il vagabondare era una punizione per aver rifiutato la messianicità di Gesù, in Chagall crocifissione e peregrinare si rivelano come due aspetti concomitanti dello stesso fato ebraico, giacchè tanto il Cristo quanto l’eterno fuggitivo sono qui vittime di un ubiquo odio antisemita.