Che meraviglia. Era un libro
attesissimo da tutti gli ammiratori
di Luigi Ghirri ed è appena uscito
per i tipi di Quodlibet. Si intitola
Niente di antico sotto il sole.
Scritti e interviste e insieme a un
altro suo titolo pubblicato dallo stesso editore
- Lezioni di fotografia - è senza dubbio un
volume da avere e da meditare durante queste
sere di settembre, magari sorseggiando un
calvados - ottimo il Drouin 2000 millesimato
e invecchiato in botti di tokaji - e lasciando
sbiadire, negli occhi socchiusi della memoria,
un altro giro di ricordi di un'altra estate che se
ne va. È questa una sottile malinconia -
«adriatica» osiamo definirla che gli
appassionati di Luigi Ghirri conoscono bene.
Ritenendo di far cosa interessante per chi non
conoscesse il fotografo emiliano (1943-1992),
abbiamo chiesto alla Fondazione che negestisce il lascito alcune sue immagini celebri
o meno celebri, e col permesso dell'editore le
accompagniamo con le risposte di Ghirri ad
alcune interviste contenute nel libro. Buona
lettura, ma soprattutto, buona visione.
Luigi Ghirri, perché lei parla spesso della
necessità di decongestionare il nostro
modo di guardare, di renderlo più
igienico?
C'è una battuta di Shakespeare che suona così:
«Ironia della sorte: avere una vista così buona,
e imboccare un vicolo cieco». Credo che
fotografi bene la nostra situazione. Si rischia
oggi di giungere a un punto di scomparsa, a
un'insensatezza dello sguardo per un eccesso
di visibilità. La fotografia deve tentare di
squarciare iI muro percettivo che ci
accompagna. Il mondo da abitabile e
conoscibile è diventato di colpo sconosciuto.
Una mutazione ha cambiato
impercettibilmente il suo volto, come in un
film di fantascienza. Grandi narrazioni epiche
non sono più possibili. C'è un'aria museale,
un'inquietante grandiosità, un'anestesia dello
sguardo dovuta a eccesso di descrizione.
Si è verificato un baratto fra precisione e
profondità. (A Carlo Dignola, 1990)
Lei parla di soggetti carichi di memorie...
Io lavoro con la memoria. Una memoria
collettiva che inevitabilmente ha dei riscontri
con la memoria personale. Mi spiego meglio:
lavoro su una memoria personale però ll'interno di un mondo in cui le informazioni
sono di carattere collettivo. Le due cose
combaciano. Del resto anche Giordano Bruno
diceva che pensare è speculare per immagini.
Per quello che riguarda la fotografia è
senz'altro una frase emblematica anche
tenendo conto che, quel grande, aveva
concepito addirittura le stanze della
memoria, luoghi di penombra che per me,
oggi, possono tranquillamente essere
paragonati alla camera oscura All'interno di
ogni «stanza» sono depositate determinate
memorie tutte concatenate le une alle altre. A
questo proposito Borges, autore che amo,
citava un pittore che volendo dipingere il
mondo, dipinse laghi, colline, e monti e
boschi, barche e animali morti e uomini. Alla
fine della vita, mettendo insieme i quadri e i
disegni si accorge che questo immenso
collage costruiva il suo volto. (A Sergio
Alebardi,1982)
Si guadagna molto a essere Luigi Ghirri?
Una volta pagate le stampe, le pellicole, gli
spostamenti, se si va in pareggio è già fortuna.
(A Sergio Alebardl 1982)
È un metodo fotografico abbastanza
semplice quello che lei indica, lontano da
certa boria intellettuale cui siamo abituati.
Mi è capitato di recente di fotografare la casa
del pittore Giorgio Morandi. Esperienza
straordinaria: mi ha colpito il racconto del mio
accompagnatore sullo sconforto dell'artista
per il condominio giallino che era stato
costruito davanti al suo studio, e che alterava
la quantità e qualità della luce che poteva
arrivare sui suoi soggetti. Morandi non ha
usato altra materia che la normalità: è tornato
continuamente a ridipingere le stesse bottiglie,
bicchieri, vasi. Ho cercato di imparare la stessa
essenzialità. il tempo è un elemento
importante, la ripetizione anche, per la
fotografia. Morandi aveva scoperto che le cose
hanno una loro voce: bisogna mettere in
disparte la voglia di trasformare, e ascoltare
questa lingua silenziosa Sa qual è l'errore di
tutti i falsari di Morandi (e sono tanti)?
Sbagliano la misura delle bottiglie, che era una
misura rinascimentale: non la rifanno mai
esatta Anche nella uria fotografia il problema
principale è diventato dare ordine, dare una
misura alle cose.
Il mondo, per un fotografo, sta diventando
più bello o più brutto?
Ansel Adams, il naturalista americano, diceva:
«Paesaggio è una parola sporca: è là dove
finisce la natura». Era l'utopia di un mondo
puro, in realtà mai esistito. Certo, oggi si
avverte un bisogno di rifondazione, di un
nuovo alfabeto visivo. Un bisogno di purezza,
di innocenza, di un sentimento dell'origine
delle cose. Fotografare è per me rinnovare
questo stupore, rovesciare il detto
dell'Ecclesiaste secondo cui «non c'è niente di
nuovo sotto il sole», per affermare al
contrario che nulla è più antico. Recuperare
Io sguardo adolescenziale che osserva tutto
come se fosse la prima e ultima volta. Diceva
Giordano Bruno: «Le immagini sono enigmi
che si risolvono col cuore». È necessario
recuperare una forma di umiltà di fronte al
tempo e alla durata delle cose, e proporre un
punto di equilibrio fra artificio e natura, fra
rilevazione e rivelazione. Quello che ci è dato
di conoscere non è che una smagliatura.
Eppure, è qualcosa di irripetibile: una luce
rosata come questa di Sabbioneta, sui muri
del Palazzo Ducale, non si ripeterà più. (A
Carlo Dignola,1990)
Che formato utilizza?**
I16 x 7. Mi dà più tempo per osservare e per
pensare; inoltre il punto di vista è abbastanza
lontano dal soggetto, e i colori sono più delicati
e più profondi. (A Claude Noni, 1985)
Ido la sensazione che, dopo aver lavorato in
esterni, ora si stia interessando agli interni.
Mi interessa ìl rapporto fra interni ed esterni.
Soprattutto in Italia dove gli interni delle case,
delle chiese, dei cinema e dei negozi sembrano
musei in miniatura pieni di oggetti, una sorta
di «album locale». (A Claude Noni, 1985)