«La lingua tedesca è formata da una
dozzina di frammenti di parole gettati
a caso dentro un cilindro ottagonale.
Lo capovolgi, e vengono fuori queste
frattaglie di Ver, Be, Ge, Er, taro, schen,
gong, heits, keits e un migliaio di altri
prefissi, affissi e suffissi lampeggianti e
fiammeggianti. Li vedrai una sola volta,
poi li perderai di vista per sempre».
Il rapporto di Mark Twain con il
tedesco e con le lingue in generale è
noto e la narrazione a proposito di questa frequentazione è giustamente quasi
del tutto occupata da innumerevoli
citazioni sparse qua e là nell'Internet
tratto da un testo del 1880, The Awful
German Language, appendice a un
resoconto di un viaggio che lo scrittore fece in quegli anni in Germania, in
Svizzera, in Francia e in Italia. Ora, di
La terribile lingua tedesca e di cinque
altri testi dedicati al tedesco rende finalmente giustizia editoriale una raccolta «definitiva» curata da Dino Baldi,
a inaugurare una elegante nuova collana dell'editore Quodlibet di Macerata.
In effetti Twain fu sempre molto
incuriosito da falli linguistici e slese contributi su italiano, portoghese e
francese, oltre che sul nostro tedesco,
«un congegno perfetto e perfettamente
insensato inventato da un pazzo con il
mal di denti». Ma anche il codice di un
popolo sinceramente amalo; codice certo complicato da imparare ma praticato
da una realtà sociale che l'autore amò e
frequentò per lunghi periodi. «Gott sei
Dir gnhdig; O meine Wonne» fu l'iscrizione che egli incise sulla lapide tombale
della moglie Olivia, «Che Dio abbia misericordia di te, tesoro mio».
Sono, questo testo e i suoi compagni della raccolta, di grande spasso; un
gruppo di modalità diverse di tornare
sul tema (la cui origine è tracciata con
perizia dal curatore in capo a ogni brano e con note a piè di pagina): un saggio
narrativo; un'opera teatrale dove i personaggi parlano con le frasi falle imparate sulle grammatiche; un racconto
dove una coppia di anziani cerca di far
fronte ai danni di un forte temporale, ai
tuoni e ai fulmini, sulla base di un manuale in tedesco; due discorsi in sede
pubblica tenuti in un tedesco fintamenle approssimativo e inlerferilo dall'inglese; una nota sulla parola tedesca più
lunga.
Nella numerosa serie, Twain dichiara in tutto sette ossessioni principali, che compongono una rassegna
sistematica nel cuore del volume: il
caso dativo, «una stravaganza ornamentale»; il verbo alla fine delle frasi;
l'inadeguatezza del lessico delle imprecazioni, in tedesco troppo molli;
l'organizzazione dei generi («In Germania una ragazza non ha sesso, mentre una rapa ce l'ha»); le inlerminabili
parole composte; ipertrofici depositi
di verbi in fondo alla frase del tipo haben sind gewesen gehabt geworden sein;
parentesi e sottoparentesi, con «la colossale parentesi reale che racchiude
tutte le altre parentesi». Sette criticità
supreme e una soluzione: lenere solo
due parole, Zug e Schlag con i loro derivati, e rimuovere tutta il resto del vocabolario.
Questo libro colpisce per un paio
di evidenze. Dapprima, per l'allualità della reazione generata nel lettore,
di quei tempi e di oggi: la testualità di
Mark Twain è efficacissima a distanza
di più di un secolo e fa tantissimo divertire. Poi, per il pensiero che va subito
alla modernità del dibattito sulle lingue
migliori e su quelle peggiori. Del tema
si occupa, ancora, la linguistica più h la
page e non da ultimo La razza e la lingua, il bel libro di Andrea Moro di un
paio di anni fa che dimostra che, in sé,
una lingua non è né migliore né meglio
allrezzata di altre in nessun ambito e
che forse la sola tradizione linguistica
fa qualche differenza.
«Mi ricordo che una volta tradussi una frase in questo modo: "La tigre
infuriala spezzò la catena e divorò la
misera abetaia" (Tannenwald). Non mi
convinceva mollo, finché non appurai
che Tannenwald era, in questo caso, il
nome di un uomo».