El Critoleo del corpo
fracassao di Biagio
Marin (1891-1985)
è tra le opere più
belle della letteratura italiana - e non solo (e infatti Marin, «Biaseto» per gli amici,
venne candidato al Nobel
nel 1981). E come capita a
certe autentiche gemme
(penso a Il ricordo della Basca di Antonio Delfini, a
Giorni di guerra di Giovanni
Comisso, a L'onda dell'incrociatore di Pier Antonio Quarantotti Gambini, e a tanti
altri) risulta assai poco nota.
A interrogarsi sul perché di
questa e di tante altre clamorose lacune, il discorso si farebbe assai lungo e complesso: c'entrano la scuola, l'università, una classe di docenti e critici spesso non all'altezza, l'appiattimento generale, la pigrizia, perché no?,
una certa idea troppo professorale della letteratura, e
chissà cos'altro a voler scavare bene.
Qui preme segnalare il ritorno sugli scaffali di un autentico capolavoro, in
un'edizione succosa, a cura
di Ivan Crico (che ne dà anche un'efficace traduzione
in italiano), arricchita da
un'appendice di estratti dai
diari inediti a cura di Pericle
Camuffo (Quodlibet). Ma
che cos'è il Critoleo? Ce lo
suggerisce innanzitutto il
sottotitolo: Litanie alla memoria di Pier Paolo Pasolini
(o, per dirla nella forma originale, con vertiginoso spostamento dell'accento e grafia anticheggiante, Litànie a
la memoria de Pier Paolo Pasolini). Sono tredici poesie
in dialetto gradese (detto anche gravisano) in quartine
variamente rimate scritte a
caldo, subito dopo la morte
di Pasolini. Infatti, la tredicesima poesia reca in calce la
data «Grado, 12 novembre
1975» - dunque ad appena
dieci giorni dalla «triste vicenda», come la definisce lo
stesso Marin nei diari (che
sono un singolare impasto
di intuizioni critiche - ad
esempio la superiorità della
produzione friulana di Pasolini - e posizioni retrive,
all'epoca molto diffuse, sulla «torbida passione», la «pederastia» come viene chiamata).
La grande poesia va sì raccontata ma soprattutto letta,
ecco dunque un breve saggio: «Quell'usignolo cantava/ ma nessuno lo capiva:/
una voce forte offriva/ alle
ragioni della vita/ e della
morte;// ma l'aria era muta,/ la gente sorda:/ nessuna
corda/ nei cuori aridi vibrava». Attenzione però. Si tratta di poesia fintamente ingenua (lo stesso Marin nei diari ci gioca un po', presentandosi quasi come uno sprovveduto, una «animucola di
provincia», mentre in realtà
è stato un finissimo intellettuale, grande conoscitore
della filosofia e della cultura
mitteleuropee). Anche perché se fosse davvero ingenua, questa poesia, il suo valore decadrebbe rapidamente. Invece vale l'inossidabile, efficacissimo refrain: il
massimo della semplicità si
ottiene con il massimo
dell'artificio.
Qualche esempio di questa complessa semplicità (o
semplice complessità): il titolo. Critoleo (dal verbo critolâ, scricchiolare) significa
scricchiolio, schianto. Di
conchiglie sulla spiaggia (il
gravisano è un dialetto profondamente marinaro), ma
poi anche di ossa (del poeta
assassinato). Non solo: nella
sillaba iniziale si nasconde
anche la parola Cristo (figura particolarmente cara a Pasolini, che torna nella decima lirica). E c'è persino
un'allusione plastica a Critolao, il filosofo greco famoso
per la bilancia dei beni materiali e immateriali. E crito in
greco indica qualcosa di
scelto, eccezionale (confermato dai versi «Tu eri fine e
mite,/ delle carte esperto/ e
di ogni arte»). Inoltre, diverse sono le allusioni alla poesia stessa di Pasolini: il motivo dell'usignolo («rusignol» )
che appare in diverse occasioni, fino a chiudere la raccolta, ultimo sigillo di un
ideale cenotafio di carta.
Qualche parola sulla traduzione di Crico, anche lui valido poeta in un raro e prezioso dialetto friulano, il bisiàc:
era difficile rendere tutta
l'ardua semplicità di Marin,
nel complesso Crico ci riesce, soprattutto quando meno si allontana dalla "lettera" e dalla struttura dei versi
- ad esempio: «Friuli beato,/
de fiume e de rogo/ che sà le
vogie/ del sielo imacolato» ;
«Friuli beato,/ di fiumi e di
rogge/ che i desideri conosce/ del cielo immacolato»
(invece certi tentativi di interpretare troppo risultano
meno perspicui, come quando i versi da quattro diventano cinque, senza una reale
necessità). Anche se tanto in
italiano si perde e andrebbe
assaporato nella sonorità e
nella semantica del gravisano: un beffardo e tagliente
«svolo» non è lo stesso di un
italiano «volo»; «ne la coscienza fate» è molto più incisivo di «nella coscienza infisse»; «sielo» (cielo) fa rima
con «velo»; «paravegie» (farfalle) con «maravegie» (meraviglie, giustamente!); «celo» ha il guizzo che manca
all'italiano «violoncello»;
«molâlo» è un colpo di frusta, l'italiano «scioglierlo»
non ha la stessa perentorietà.
Infine, l'ultima parte,
l'«Appendice», contiene
stralci inediti dei diari di Marin: importante la testimonianza sul funerale di Pasolini a Casarsa (si vedono sempre immagini della cerimonia romana, ma la cerimonia più intima e sincera fu
quella in Friuli, con padre
Turoldo e i contadini del posto, i protagonisti delle poesie friulane). Senza contare certi lampi critici: «A me un Montale, un Ungaretti. naturalmente, non possia sembrar molto maggiore di Era più vivo di loro». E noi, mo che sottoscrivere.