Nel mondo distopico verso cui veniamo, più
che traghettati, sospinti a calci, il libro come
oggetto materiale e molti altri oggetti al libro
connessi o, come vedremo, al corpo degli scrittori
collegati, perdono ogni giorno più valore: la loro
funzionalità tende a svanire, così come la loro
eccezionalità, ovvero la gioia superflua che
raffigura l'incanto e l'innamoramento, la "filìa"
che rende, appunto, bibliofili.
E, certo, la pubblicazione privata di preziose
plaquette, nobile e antica arte rinascimentale del
tipografo raffinato, evapora dall'orizzonte delle
masse. Ad esempio il long arm inventato da
Benjamin Franklin, di cui ci racconta
mirabilmente Massimo Gatta ne La mazzarella
di Ben, composto dalla napoletana Langella
Edizioni in tiratura limitata, carta amalfitana
Amatruda, legatura a filo e cofanetto con
cartolina illustrata, al più può evocare, agli
smartphone-dotati, la mazzarella cinese per
scattare selle in sospensione, in pose da putto di
fontana e effetto drone-gallina.
La mazzarella dell'inventore, fra l'altro, come ci
ricorda Gatta, del parafulmine, della sedia a
dondolo e del catetere, consisteva in un braccio
di legno per prendere e riporre i libri dagli scaffali
alti delle librerie.
Il progetto disegnato, con accurata spiegazione,
lo pubblica la stamperia privata The Franklin
Press, fondata nel 2002 da Marion e Dieter
Sedaris a Nashville allo scopo di tirare un sol
titolo l'anno, dedicato, per l'appunto, a Franklin.
Il long arm come premessa alla longa manus che,
scherza Massimo Gatta, è espressione molto
familiare agli italiani, benché tardoantica.
Viene da pensare che in tempi in cui abbondano
le longa manus, personaggi politici tv e media
eterodiretti dall'economia e dal potere, ci
servirebbe proprio un long arm per riprendere
quei libri che, rimasti sullo scaffale troppo in alto,
pretendono d'essere riletti.
Ad esempio, è l'occasione per riprendere i libri di
Alberto Arbasino, di cui, con passione trasferita
(per fortuna) a una nuova generazione, narra, fra
foto, ricordi, citazioni e curiosità Michele Masneri
in Stile Alberto (Quodlibet Storie): un ricordo
così intenso e un attraversamento così sentito
dell'opera arbasiniana non lo vedevo dai tempi di
Pier Vittorio Tondelli.
Anche qui, nella narrazione di Masneri, gli
oggetti (le camicie e come sceglierle, i cappotti e
come sceglierli, la biancheria intima, le cravatte e
come sceglierle) ci calano in un'estetica del
comportamento tutta novecentesca che cozza
infinitamente con gli outlet, con i centri
commerciali, con i nostri abiti di plastica.
Lo status symbol non è un Suv, ma ha qui a che
fare con l'identità; la cura della frase coincide con
la cura, anche snob, della persona; il catalogo
delle cose non è cascata di dati, stringa
d'informazione, è peculiarità, è sineddoche del
gusto e dell'intelligenza.
Come sa chi ha letto Arbasino, esiste pur sempre
un'alta moda dello spirito, anzi una sartoria
dell'anima, che consente ai dettagli di diventare
opera, come nei quadri di Domenico Gnoli, che
osservano così da vicino la trama di una stoffa da
rivelarci spettatori di praterie e campi coltivati.
Michele Masneri è anche l'autore del notevole
Steve Jobs non abita più qui (Adelphi): i suoi
due libri escono a breve distanza l'uno dall'altro e
non si può evitare di pensare che il giro per gli
Stati Uniti delle start up, dei garage dove nascono
gli imperi economici, nella terra delle
opportunità e dei think thank (che ci
opprimono), sia un omaggio all'Arbasino ospite
della California. Leggendo Masneri non si può
fare a meno di pensare alle biblioteche chiuse
agli studenti, alle nostre, meridionali start up,
che manco i garage hanno o che nel garage
restano.
Da quale soglia di sconfinata confusione
guardiamo il nostro presente? Lo facciamo con
gli occhi Maria Callas che piangono dagli occhi di
Arbasino, come recita la copertina di Stile
Alberto, opera di Francesco Vezzoli? L'Italia è
ormai eco degli Stati Uniti: eco di un'eco, poiché
l'Europa che eravamo ora ce la imbustano da lì e
da lì ci informano della mazzarella di Ben.