Recensioni / L.O.V.E. Anatomia di un mito italiano: una nota su Genius Loci di Stefano Chiodi

L.O.V.E. (2010) di Maurizio Cattelan è un’opera oramai impressa nel nostro sguardo con quella forza bislacca e provocatoria tipica di molti lavori dell’artista. Possiamo rintracciarne una recente e perspicace lettura nell’ultimo libro di Stefano Chiodi, Genius loci. Anatomia di un mito italiano (Quodlibet, 2021), in cui l’autore si prefigge di indagare e contribuire a chiarire una questione che, più che complessa, può sembrarci addirittura oscura. È proprio perché collocata nell’ambito di un discorso sul ruolo, o meglio sull’esistenza, di una “italianità” della nostra cultura artistica – ci arriveremo dopo – che L.O.V.E. acquista interesse maggiore.
Conosciamo bene l’opera: una scultura di cinque metri che raffigura una mano tesa con le dita mozzate, ad eccezione del medio, collocata davanti al Palazzo della Borsa in Piazza Affari a Milano. L’effetto – così come l’intenzionalità dell’artista – strizza l’occhio a ironia e provocazione, e viene certo da chiedersi a chi, e da parte di chi, tale imponente gestaccio sia simbolicamente rivolto. Al mondo della speculazione finanziaria (da cui, del resto, il sistema dell’arte è tutt’altro che svincolato)? Oppure, in direzione opposta, verso di noi spettatori? L’ambiguità provocatoria è palese e stimola lo sguardo, ma non è tutto.
Come nota Chiodi, l’opera innesca sequenze di immagini: chiama in causa tradizioni iconografiche e visualizza simboli, “italiani” ed europei, tra loro assai diversi. La colossale mano dell’imperatore Costantino proveniente dalla Basilica di Massenzio, la grande statuaria pubblica, fino all’evidente rimando alla mano tesa del saluto fascista. Guardando invece al rapporto simbolico tra mano e scultura-creazione, l’autore rileva nell’arto mozzato il segno – richiamando Focillon – dell’annichilimento dell’artista stesso. E anche in questo caso una serie di immagini, legate perlopiù all’arte dello scorso secolo, si intreccia a quella di Cattelan: da Rodin a Paul McCarthy, passando per Man Ray, Picasso e l’universo pulsionale di Dalì.
Se nell’opera l’artista «convoca così, in un luogo emblematico della vicenda sociale ed economica italiana, iconografie, simboli, tempi eterogenei, sovrapposti e compressi gli uni sugli altri» (p. 118), come valutare un simile anacronismo? Certo nella sua accezione Didi-Hubermaniana – Chiodi ne è ben consapevole – che fa della temporalità intrinseca delle immagini un modello di riferimento, in cui la fecondità del rapporto tra passato e presente non sussiste tanto in consapevolezze pregresse e sentimenti rievocativi di eredità secolari, quanto in un collasso repentino, nell’emergere di quella che Benjamin definirebbe immagine dialettica.
Ecco dunque l’unirsi contrastante di questi stimoli differenti: da un lato un simbolo chiaro di un’eredità latina in chiave artistica incarnato dalla scultura pubblica (pars pro toto, in realtà, di tutta la tradizione artistica italiana), dall’altro la più violenta e totalitaria storpiatura di tale eredità. A ciò si combina il riferimento alla figura dell’artista impotente e al corpo mutilato, riecheggiante per di più un certo surrealismo. Il collasso reciproco di tali immagini in L.O.V.E. induce l’autore ad affermare: «Dietro l’ultracorpo fascista ridotto al suo stentoreo saluto, dietro il suo vuoto fallicismo, si stagliano così il corpo fatto a pezzi dalla guerra e il Fallo mancante, la Mano di Dio e quella dell’artista decaduto a Guitto.
Il Dito, eretto come lo gnomone beffardo di una grande meridiana, misura l’ampiezza del fallimento incarnando, con un’ultima contorsione, l’ironico finale della Storia» (p. 123). In questo senso la scultura di Cattelan si rivela un caso di studio importante e – forse (a torto) inaspettatamente – fecondo in un testo che si propone di indagare il mito del genius loci, di una dimensione nativa, o meglio votiva, per la cultura e l’arte in Italia.
Questione che l’autore esplora mettendone in evidenza alcuni caratteri fondamentali, primo tra tutti il rapporto con la stagione filosofica e culturale del postmoderno e della sua espressione nostrana in campo artistico, con le operazioni “di ritorno” e, per così dire, di anacronismo a buon mercato a cura di Achille Bonito Oliva; ma anche vicende storico critiche ben precedenti, tra epoca fascista e repubblicana, eredità culturali “autoctone”, e ricerche e sperimentazioni secondonovecentesche.
L.O.V.E si innesta verso la fine di questo articolato percorso e non ci dice qualcosa di definitivo, né risponde all’ipotetica domanda «esiste, oggi, un genius loci per la nostra epoca?» – sarà poi Chiodi a proporre un’ipotesi – ma lascia intendere un atteggiamento chiaro. «Lo strano antimonumento di Cattelan non si esaurisce dunque [,,,] in una battuta o provocazione fine a se stessa. Piuttosto, vi possiamo scorgere la simultanea messa in tensione di molteplici piani discorsivi posti sotto il segno di una generalizzata degradazione della scultura, del monumento appunto, della sua funzione simbolica, dei suoi significati politici» (pp., 123-124). A metà fra spirito di resa e desiderio di riscatto, l’opera allude, più o meno direttamente, all’impossibilità per se stessa di significare alcunché se non la dismissione di una pretesa capacità di agire in senso simbolico nella sfera pubblica.
Il problema, tutto italiano, è del resto quanto Chiodi ha messo in evidenza in ogni pagina: il progressivo perdere di credibilità, quando non addirittura l’inesistenza, di vere radici identitarie per l’arte italiana; e, laddove fossero presenti, la loro sostanziale inservibilità a causa del combinato disposto, distruttivo, di eredità fascista e speculazioni postmoderne.
Allora l’artista non può che essere senza patria, apolide in senso nietzscheano, ironico ma non indifferente: immaginando, almeno, o costruendo, se possibile, nuove radici di esperienza e azione collettiva, abbandonando immaginazioni identitarie oramai totalmente compromesse e valide soltanto per buon marketing culturale.