Con il suo A che punto siamo? Giorgio Agamben, a cui non possiamo non riconoscere il merito di aver ritrovato alcuni scritti di Benjamin (questa cosa non dimenticherò mai di dirla, perché va marcata e rimarcata) e di aver voluto «organizzare» l'edizione italiana delle sue Opere complete «secondo un ordine cronologico», raccoglie una serie di corsivi pubblicati per la maggiore nella rubrica Una voce del sito quodlibet. it, dove ci racconta di questo nostro mondo sospeso sotto il peso dell'epidemia come politica. Seguendo le categorie che accompagnano da tempo il suo pensiero, Agamben mostra l'innocenza d'oggi otturata dallo stato d'eccezione («la pura e semplice sospensione delle garanzie costituzionali»), da un «terrore sanitario» e da «una sorta di religione della salute», il cui fine ultimo è stato la perdita della libertà. Agamben non mette in dubbio che ci sia stata l'epidemia: non mette in dubbio che ci siano stati dei morti (secondo gli ultimi dati OMS sono stati 183.368.584 e la popolazione mondiale conta 7,8 miliardi di persone) ma ci dice che questo momento è stato deleterio, mal gestito da governanti dispotici e impreparati che hanno innalzato la bandiera della biosicurezza — il termine è dell'autore — per lanciare una «nuova forma di governo» (un esperimento) e innestare il verme della decomposizione al fiore della legalità. Quando il 26 febbraio 2020 è uscito sulle pagine de «il Manifesto» L'invenzione di un'epidemia, il nostro brillante filosofo ha evidenziato la frattura della macchina statale nel gestire un problema nascente e nel farne emergere uno ancora più ingestibile che è stato II panico collettivo. A distanza di qualche giorno (l'11 marzo) ha poi fatto un'analisi sul contagio e sulla nuova figura dell'untore riesumata da quei quattro abbuffini del telegiornalismo e dai politicanti per incrementare lo stato di tensione (vi ricordate quello che hanno detto a proposito dei bambini? davvero vergognoso!). Vi consiglio di leggerlo tutto d'un fiato questo libro, di considerare il pensiero agambeniano sulla nuda vita e di coglierne le sfumature. «La paura è una cattiva consigliera, ma fa apparire molte cose che si fingeva di non vedere. La prima cosa che l'ondata di panico che ha paralizzato il paese mostra con evidenza è che la nostra società non crede più in nulla se non nella nuda vita. E evidente che gli italiani sono disposti a sacrificare praticamente tutto, le condizioni normali di vita, i rapporti sociali, il lavoro, perfino le amicizie, gli affetti e le convinzioni religiose e politiche al pericolo di ammalarsi. La nuda vita — e la paura di perderla — non è qualcosa che unisce gli uomini, ma li acceca e separa. Gli altri esseri umani, come nella pestilenza descritta da Manzoni, sono ora visti soltanto come possibili untori che occorre a ogni costo evitare e da cui bisogna tenersi alla distanza almeno di un metro. I morti — i nostri morti — non hanno diritto a un funerale e non è chiaro che cosa avvenga dei cadaveri delle persone che ci sono care. Il nostro prossimo è stato cancellato ed è curioso che le chiese tacciano in proposito. Che cosa diventano i rapporti umani in un paese che si abitua a vivere in questo modo non si sa per quanto tempo? E che cosa è una società che non ha altro valore che la sopravvivenza?». Buona lettura.