Recensioni / Arbasino ha elevato a magistero la sublime arte del cazzeggio

La prima volta che ho incontrato Alberto Arbasino avevo vent'anni, studiavo all'Università di Bologna, venne al corso di Umberto Eco e fece una divertentissima e coltissima stroncatura-presa in giro di La storia di Elsa Morante. Appena uscita, era il 1974. L'ha presa per i fondelli con una lezione strutturalista e trash che durò le due ore esatte di semiotica. Era già contro l'impegno come ora ha fatto Walter Siti.
Eco e Arbasino si incrociavano perché scrivevano sul Verri di Luciano Anceschi, grande professore di estetica. Intelligentissimi e spiritosissimi (prima d'allora nel classico prestigioso liceo di provincia che avevo frequentato non avevo mai immaginato potessero esistere professori non noiosi ma divertenti), erano a vedersi molto diversi: Eco un piccolo borghese dal look un po' stazzo-nato, Arbasino un dandy con la camicia bianca cifrata A.A. Cosmopoliti, padroneggiavano il mondo e l'industria culturale. A entrambi l'intelligenza stimolava un'inedita mistura di cultura, allegria e sprezzante cattiveria tendente verso la perfidia. Il laboratorio del famoso alto e bass o. Trattare gravemente i temi leggeri. E viceversa. La sprezzatura di prendere molto in giro le cose serie e invece sul serio le stronzate. Sono i tempi andati in cui nell'arte si discuteva non di wohe e di cancel, ma di camp e di Kitsch. L'ultima volta che l'ho visto, Arbasino era già stanco, ho presentato i suoi splendidi Ritratti italiani (Adelphi) a Modena, dove aveva voluto incontrare i suoi vecchi amici Franco Guandalini e Raina Kabaiwanska, sodali dai tempi di Franca Valeri e Vittorio Caprioli. (Un regista formidabile che negli anni Sessanta bigotti e cattocomunisti popolava i suoi film di eroi gay e travestiti buonissimi).

Comparsa
In mezzo, nel 2013, gli ho dato il premio di satira politica di Forte dei Marmi, alla carriera. Venne, elegante in blazer blu, felice dell'inconsistenza del prestigioso premio. Raccontò aneddoti su aneddoti delle zie di Voghera e della Bella di Lodi, il film dal suo romanzo girato da Mario Missiroli, prima al Forte e poi a Modena, dove lui stesso assieme ad Antonio Delfini fa la comparsa dietro a una giovanissima e irresistibile Stefania Sandrelli, doppiata da Adriana Asti, che mangia una banana flambé. Ricordò che il gruppo di intellettuali che si trovavano all'ombra del Quarto platano, per l'aperitivo al caffè Roma di Forte dei Marmi, capeggiato da Roberto Longhi, dalla perfida Anna Banti e da Attilio Bertolucci (che qui facevano l'importante rivista di arte e letteratura Paragone: «in questo numero mettiamo Calvino, nel prossimo Testori e Bassani») in quei giorni non si fecero vedere, dispettosissimi, temendo di finire tra le comparse. E così ci siamo persi quell'inquadratura indimenticabile dove avrebbero potuto esserci, che so: Gadda, Montale, Bertolucci, Pannunzio, Carrà, Pea e Ungaretti.

Masneri legge Arbasino
Arbasino è colui che ha elevato l'arte del cazzeggio a divino magistero stilistico. Seguendo il suo modello c'era riuscito anche Edmondo Berselli. Se Arbasino, superbo copy, aveva inventato Signora mia e la Casalinga di Voghera, il tinello, la gita a Chiasso e le tre fasi dell'intellettuale italiano:brillante promessa, solito stronzo,venerato maestro, Berselli aveva replicato inventandosi le micidiali Professoresse Democratiche, sempre pronte a presenziare a qualsivoglia festival culturale o dibattito su letteratura (o qualsiasi altra cosa) e società. E scrivendo Venerati maestri (Mondadori), un libro di gran cabaret dedicato al maestro, il primo libro comico sulla cultura italiana. Un libro da ridere su una cultura da piangere.
Ora tocca a Michele Masneri. Che ci prova con la prova più difficile, un libro dedicato al suo venerato maestro, Stile Alberto da Quodlibet. Cito a man bassa, da un libro che è una cassaforte di delizie. Il taccuino di un inseguimento, gli appunti di un'avventura letteraria che per Masneri ha coinciso con un'educazione sentimentale. Arbasino è stato assieme a Gadda non solo uno dei migliori scrittori e dei più importanti intellettuali italiani del Novecento ma una fantasmagorica macchina di stile. Un frullatore di zie e pricipesse, di nobili e prelati, di bibliografie sterminate, libri università teatri mostre e concerti da tutto il mondo. Masneri ne è inebriato, per lui l'intera bibliografia arbasiniana (e proustiana) diviene bibliografia umana, sentimentale, esistenziale. La usa come un manuale d'uso e una bussola di vita. Tra libri, cartoline, lettere, fotografie.
«Lingua e disinvoltura totale, nella vita e sulla pagina». Un intellettuale festoso e fastoso, così diverso dallo scrittore italiano tipico. Quello sempre un po' attratto dalla sfiga. «Alberto era a suo agio ovunque: in grisaglia e cravatta regimental in visita al leggendario Mario Pannunzio al «Mondo», (caporedattore era Ennio Flaiano, Mino Maccari il vignettaro), di cui era collaboratore di punta o in mutande a fiori con Pasolini sul barcone dell'altrettanto leggendario Ciriola in riva al Tevere. Raramente in completo. Semmai, pantaloni grigi, blazer blu del sarto che era anche di Pertini».

Un papillon vero
Leggere Arbasino è stato per Masneri un tutorial che tra le mille digressioni e l'infinita bibliografia da Petronio a Benjamin, Warburg e Musil, insegnava anche come vestirsi. Camicia bianca o a righe. Sempre le stoffe che hanno un nome: flanella, vigogna, tweed, pied-de-poule, prince de Galles. Sempre lunghe le calze. Esiste un problema del marron. Fino alle scarpe, fino alla giacca color bruciato ci arrivo, per andare oltre, bisogna sentirsene straordinariamente sicuri.
Oltre a insegnare come scrivere: nell'invito a reinventare sulla pagina, anche con corsivi e virgolette, «il miglior sound dell'italiano parlato (che è veloce e divertente perché fitto di gesti e ammiccamenti, senza far pesare troppo le fatiche e pene) conservandogli quel certo agio naturale (o diciamo grazia?) che lo riconnette al milieau e al momento dove è stato prodotto, e solo vestendolo con camicia disinvolta e pantaloni letterari d'aspetto appena un po' mondano, di vita: l'unica strada per andare dentro al racconto e non stare sempre chiusi in classe». E questo non è Masneri ma Arbasino in purezza, ne L'Anonimo Lombardo con un discorso rivoluzionario sulla lingua dei romanzi italiani che avrà grande influenza su tutti gli scrittori successivi della seconda metà del Novecento. «Arbasino era uno dei pochi a poter esibire un papillon vero e non pre-annodato, certificato dal presidente partigiano-dandy Pertini che li controllava uno ad uno alle cene al Quirinale del suo settennato». Amore per le arti, la musica, la vita e l'eros avventurosi. Mortale insofferenza alla noia. Gusto per l'auto sportiva. Estate in barca con Truman Capote.

Come un Google
«Il metodo Arbasino poteva contare su un giornalismo fiorente d'altri tempi che permetteva viaggi e note spese oggi inimmaginabili. Noi nati nei Settanta e laureati nei Novanta ci affacciavamo invece alla liquefazione economica del paese». L'ultima generazione a nutrire speranze serie, ma destinata a divenire quella classe disagiata piena di frustrazioni messa a fuoco da Raffaele Alberto Ventura e raccontata nel film Smetto quando voglio dalla micidiale battuta del benzinaio che insolentisce il giovanotto che gli chiede il lavoro: «Sei laureato, non hai voglia di lavorare. Laureati non ne voglio».
«Era un Google, Arbasino: come il motore di ricerca ci potevi fare tutto, leggere, trovare collegamenti, fare acquisti, e c'era soprattutto la funzione maps: leggendolo si costruivano percorsi di studio e di vacanza: i castelli di Ludwig e le regge di Sis si, la California di Isherwood e l'Emila del Correggio. Fratelli d'Italia, in valigia, te lo portavi (anche se pesa da solo come un bagaglio a mano)».

Teorizzare il vaffanculo
I fondamentali: etica, estetica, etichetta. Cioè: mai lamentarsi, mai essere noiosi, stare alla larga dal sentimentale.
E anche la teorizzazione delvaffanculo, ben prima che movimenti e partiti se ne appropriassero. Come scudo apotropaico, ricorre ben 21 volte in Fratelli d'Italia, stesura finale di Adelphi, la sua opera mondo, contro chiunque pretendesse prestazioni professionali gratuite. Per le quali «Avanzare un'offerta finanziaria» diceva la voce di Arbasino arrotando tutte le erre nella sua leggendaria segreteria telefonica, nella famosa casa dietro a piazza del Popolo. Tariffario preciso, come gli idraulici e i meccanici per leggere composizioni di prosa, poesia. O rap.

Prevedere il futuro
Secondo Masneri Arbasino aveva previsto tutto. La realizzazione dell'utopia green dell'economia circolare del lavoro intellettuale contemporaneo: con la preghiera quotidiana della richiesta del pdf, in un'industria in cui quelli che scrivono sono anche quelli che leggono, dunque i pdf se li passano tra di loro, non essendo disposti a spendervi neanche un centesimo.
E poi l'Italia gay, l'omosessualità scapestrata di Arbasino nella Roma tra gli anni Cinquanta e oggi, e Gadda e Pasolini e Tondelli. Una città di sfrenati divertimenti gay. I giovani marinai e soldati sempre disponibili, un'infinità di "marchette" sempre pronte. Gore Vidal si trasferì a Roma perché, sosteneva, le marchette costavano poco.
Arbasino poi era seriamente preoccupato della questione del politicamente corretto individuando, come sempre, un trend sul nascere «nelle più intolleranti e pedanti università americane di provincia, come ripresa di bigottismi e tabù intransigenti dopo l'apparente epifania liberatoria dei meno puritani anni Sessanta».
Se ci fosse il campionato dei libri, tripartito secondo il paradigma Arbasino a tre gironi, con il suo Stile Alberto Masneri vince quello della giovane promessa ed è direttamente promosso al rango di venerato maestro. Con scatti del grande Paolo Di Paolo e una cover d'artista realizzata da Francesco Vezzoli.

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