Recensioni / Poesia in linea

MANO. Italo Lupi aveva sedici anni quando nella sua vita è entrato Saul Steinberg. «Frequentavo il liceo» comincia a raccontare l'architetto, graphic designer, maestro del visuale due volte Compasso d'oro, nel bel salotto della luminosa casa milanese, alle sue spalle per magnifica coincidenza una composizione di illustrazioni di Steinberg, elegante e leggera. «Chissà come mai, mio fratello, che lavorava come funzionario di un'azienda di oli per macchine da corsa, mi aveva regalato per Natale quel libro meraviglioso che è All In Line, il primo pubblicato da Steinberg. Ce l'ho ancora. Mi aveva fatto innamorare. Andavo sotto casa e dalla finestra del primo piano mi facevo fotografare mentre sul marciapiede, con un gesso, riprendevo le vignette dove Steinberg si autodisegnava. Mi dispiace non averle più quelle fotografie».
Lupi è difficile da contenere in una definizione. E lo stesso si può dire per quel continente fantastico che è stato Steinberg, nato nel 1914 e morto nel 1999, il figlio geniale e pungente di un tipografo rumeno, scappato prima in Italia e poi negli Usa per entrare nella storia dell'illustrazione armato di mappe, cartografie, timbri, linee, lettere e architetture che mai avremmo immaginato potessero contenere tanta poesia. Un discreto pezzo di mondo conosce la sua opera più famosa senza forse conoscere lui: quella View of the World from 9th Avenue disegnata per il «New Yorker» nel 1976 e riprodotta su milioni di poster, donata su decine di città («sarò ricordato come l'uomo che ha fatto quel poster» si lamenterà lui per il resto della vita).
Due anni fa, era il settembre 2019, ricorda Lupi, «Stefano Boeri, presidente della Triennale Milano, mi chiama e mi chiede: che mostra faresti? Gli ho risposto quasi meccanicamente: Steinberg. Perché Milano gli deve molto, e lui deve molto a Milano. È qui che ha iniziato, studiando architettura, disegnando per il «Bertoldo» di Guareschi e poi per il «Settebello» di Zavattini. Ha amato Milano anche dopo essere finito a San Vittore perché ebreo, prima di scappare per sempre negli Stati Uniti».
Saul Steinberg, Milano New York è dunque il titolo della grande mostra curata da Italo Lupi, Marco Belpoliti e Francesca Pellicciari che la Triennale di Milano ha organizzato con Electa, dal 15 ottobre al 13 marzo, accompagnata da un libro-catalogo a cura di Belpoliti e una "guida sentimentale" alla Milano di Steinberg che uscirà a novembre. «Senza loro due per me sarebbe stato impossibile, lo scriva, hanno fatto un lavoro da veri investigatori per recuperare tutto il materiale da fondazioni, collezioni, gallerie e privati, quando neanche si poteva viaggiare».

Cosa avete portato a casa?
«Tantissimo. Con Ico Migliore e Mara Servetto abbiamo allestito tutta l'ampia curva al primo piano con i suoi lavori a matita, a penna, a pastello, le teche con i libri e le foto, le copertine per ilNewYorker, guardi che meraviglia... questa è la stanza di un hotel a Carpi, un junk shop americano, le maschere fatte sulle buste del pane e fotografate da Inge Morath, perché lui diceva che in America tutti indossano una maschera per sembrare sempre felici. Avremo in video l'intervista che gli fece Sergio Zavoli, e anche stoffe, collage, i dischi su cui aveva la mania di dipingere con l'amico Aldo Buzzi. E due delle cartoline natalizie che aveva fatto per Gio Ponti, sono di una poesia straordinaria: ha interpretato il Natale come forse solo Bruegel».

Vi siete mai conosciuti di persona?
«Ci siamo solo incrociati. Del resto era noto per essere un tipo scorbutico, neppure gli sforzi di amici comuni come Saul Bass e Milton Glaser sono riusciti a combinare un incontro. Lo ricordo nel '54 a Milano; un'amica veneziana che faceva architettura mi aveva detto, dai vieni a Parco Sempione che stanno decorando il labirinto dello studio Bbpr per la Triennale...».

E lui era li.
«Fu emozionante vedere questo omino che omino non era, con un cappelluccio in testa, a ginocchia piegate, mentre incideva con un chiodo i suoi graffiti sulla parte interna del labirinto. Esponiamo per la prima volta in Europa i quattro"leporelli",fogli lunghi una ventina di metri su cui aveva tracciato i disegni da incidere, dedicati alla linea, alle città d'Italia, all'architettura e al Mediterraneo».

Avete entrambi fatto il Politecnico di Milano, lui però non ha mai progettato un edificio.
«Diceva che studiare architettura è un allenamento formidabile per tutto meno che per fare l'architetto. E lo diceva perché lui si sentiva molto più libero».

Si definiva "uno scrittore che disegna".
«Infatti non distingueva le parole dal disegno, faceva diventare le parole disegno. Con Belpoliti abbiamo scelto alcune frasi sintomatiche per capire il personaggio. "Un grande artista, il più fascinoso, il più misterioso, il più libero": lo ha detto Fellini. E Adam Gopnik: "Il suo soggetto è sempre la vita, non l'arte". Ennio Flaiano diceva: "È l'unico pittore che si fa leggere" Bella, eh?».

C'è un pezzo in mostra che ama un po' di più?
«Milano Bauhaus, bellissime tavole che fece anni dopo, sulla base dei suoi ricordi, di luoghi come il Palazzo di Giustizia di Milano e altri scorci, altri edifici razionalisti, e davanti ci fa sempre passare dei personaggi squallidissimi, che magari fanno il saluto romano».

Era il suo modo ironico di vendicarsi per quello che gli avevano fatto passare?
«Aveva un umorismo molto particolare, ci metteva cattiveria ma anche dolcezza. Non appaia strano, ma a me ha sempre fatto venire in mente George Grosz, che disegnava le sue figure grottesche, le sue donne terribili, straordinarie, e lo faceva in una società dura e bestiale come quella tedesca all'avvento del nazismo. Steinberg forse era più buono. Ma le sue newyorkesi appese alle maniglie della metropolitana, tutte puntute, truccate, cotonate, non erano meno affilate».

E le italiane?
«Nel suo immaginario erano più morbide. Ma Steinberg non era interessato a ritrarre la bellezza, usava la linea per raccontare la condizione umana: il disegno come espressione del pensiero. Nella mia vita è arrivato non a caso in un momento storico particolare, pieno di idee nuove, ancora ivo il fervore della Liberazione. Durante la guerra ci eravamo rifugiati nella casa di mio nonno appena fuori Roero, nelle Langhe, e ci avevamo nascosto anche sei amici di un nostro parente che aveva sposato una signora ebrea».

Si sono salvati?
«Per fortuna sì. Mio padre era direttore di banca a Pavia, lo raggiungemmo pochi giorni prima che i partigiani liberassero la città. Poi da Cremona arrivarono gli americani. Ragazzoni allegri che negli zaini si portavano dietro fumetti di una modernità straordinaria, come Al C app, Dick Tracy, dentro quegli albi c'era un modo diverso di concepire il mondo, la moda, tutto. Così l'America diventò per me sinonimo di libertà. E Steinberg lo lego a tutto questo, come un faro di luce. Non condivido tante cose che gli Usa hanno poi prodotto. Ma riconosco la grandiosità che ha affascinato Steinberg quando nel '41 è arrivato a New York e ha visto perla prima volta il Chrysler Building».

È vero che ha fatto anche la spia per gli americani?
«Una storia fantastica. Nel '44 lo avevano arruolato come ufficiale dei servizi segreti in Marina e spedito in missione prima in Cina, poi in India, nel Pacifico, Nordafrica e anche in Italia. Al ritorno, invece di scrivere il rapporto, lo disegnò. Dipinse gli aerei che bombardavano Cassino... E il più bel reportage sulla guerra che io abbia mai visto,perché è una rappresentazione di quei luoghi e di quei popoli assolutamente pacifica».

VITA, OPERE E INTERVISTE A Saul Steinberg è dedicato il prossimo numero della rivista Riga (edita da Quodlibet, pp. 536, euro 27). A cura di Marco Belpoliti, Gabrielle Gimmelli e Gianluigi Ricuperati propone, oltre a due saggi che analizzano il lavoro e la vita del grande artista, ventuno sue interviste rilasciate a giornali, soprattutto americani, e mai tradotte in italiano