Ecco, si fa così.
Perché mai dovrebbe interessarci la
biografia di uno scrittore dei nostri tempi,
uno che ha avuto sotto gli occhi più o meno lo stesso nostro mondo? La biografia di Dante,
si può capire, ma quella di un nostro
contemporaneo? Abbiamo i suoi libri, le sue lettere, a volte i diari: per
quale ragione dovremmo voler sapere dove andava in vacanza da piccolo, come si chiamava la sua prima
fidanzata e se preferiva l'arrosto o la
bistecca? Non sono notizie superflue, con tante sue pagine ancora da
leggere o rileggere?
In queste splendide centocinquanta pagine, cento se si tolgono le
foto, Michele Masneri si è ben guardato dallo scrivere una biografia di
Arbasino (che del resto esiste già ed
è perfetta, in apertura del Meridiano
dei Racconti e romanzi, l'hanno
scritta insieme Arbasino e Manica),
o anche solo un frammento di biografia, ma ha cercato di spiegare il
significato che la vita e i libri di Arbasino hanno avuto per lui. Non è
un libro su una sola persona ma su
due, e l'altra è Masneri. Il ritrattato
è nato nel 1930,11 ritrattista nel 1974,
e questo abisso ha un effetto rilassante sul ritrattista (e di conseguenza sul lettore), che non solo non
compete ma non s'impanca neppure ad allievo o erede o - men che
meno - confidente: si limita a contemplare in ammirazione. Di fatto,
questo non è il diario di un'amicizia
tra un vecchio scrittore e un giovane, Arbasino non dava confidenza
neanche ai coetanei, figuriamoci ai
trentenni.
Ora, lo "stile Alberto" del titolo - l'alluvione di saggi racconti e
romanzi, le interviste ai famosissimi del Novecento, i concerti e le
mostre già viste anni prima che le
vedessimo noi, le colazioni a casa
Kissinger, la casa-museo a Roma
con le tappezzerie di William Morris e le stoffe di Mariano Fortuny
comprata all'età in cui adesso si affitta un monolocale, gli spezzati e le
cravatte perfette, le lingue straniere
eccetera eccetera - lo stile Alberto è
il precipitato di un'esistenza oggi
non solo inimitabile ma quasi
inimmaginabile per un giornalistascrittore che non sia di cassetta,
cioè che non faccia Tv. Benestante
di famiglia, Arbasino ha saputo però mantenersi da solo con articoli e
libri e teatro, in tempi in cui soprattutto i primi si pagavano tantissimo, e ha sempre fatto e scritto quello che voleva senza mai rendere
conto a redattori, editor, commissioni di concorso, dipartimenti universitari. Una meravigliosa libertà
che è finita, si direbbe, col Novecento, o con internet.
Quando Masneri entra in rapporto con lui, Arbasino ha già scritto
tutti i suoi libri più belli, ma pubblica ancora, un po' cose nuove un po'
vecchie cose riattate per i volumi
Adelphi, e viaggia. È uno dei pochissimi grandi veramente grandi, uno
dei pochi viventi su cui nessuno eccepisce. Ha passato i settant'anni, è
l'età dei premi alla carriera, delle
comparsate da venerato maestro in
televisione (dove non buca lo schermo: come non lo bucava nel 1997 nel
talk-show «Match» che adesso si
può vedere su RaiPlay). Esiste un
tratto, un'attitudine che possano
dirsi caratteristici di questo Arbasino senile? L'impressione, a dirla in
breve, è questa: che all'infinita curiosità e all'infinita energia della
giovinezza e della prima età matura
si sia sostituita l'amarezza, l'insofferenza nei confronti degli altri, soprattutto gli altri italiani, che proprio non sono all'altezza. Non è una
reazione anomala, per un intellettuale settuagenario (Stajano: «Senatore Pani, qual è la cosa che nella
vita l'ha più delusa?». Parri: «Mah,
il popolo italiano, ecco»), ma al penultimo e all'ultimo Arbasino questo stato d'animo ha ispirato valanghe di pagine risentite e anche un
po' querule (lui che detestava i lagnosi), piene di anatemi contro gli
zombi che hanno devastato le città,
reso infrequentabili le mostre, i
concerti, la Tv, la politica...È sempre
la vecchia insofferenza per la 'mutazione', e il rimpianto per l'Italia di
prima, salvo il fatto che più che incolpare il boom economico Arbasino mette il punto di frattura verso il
Sessantotto: «L'impressione fondamentale di quegli anni indubbiamente fu: qui si avvia a funzionare
un "tutto di massa" come nella televisione, i movimenti accelerano
l'azzeramento di ogni originalità
individuale nella sudditanza omogeneizzata dei comportamenti
standard e degli zombi intercambiabili. Abituati a risposte collettive
e meccaniche, saranno capaci di gesti personali mai più? Come risultato della "collettivizzazione" iniziata
in politica e finita in pubblicità: ecco
la zombaggine dei consumatori che
credono automaticamente in qualunque slogan» (Il mio '68).
Quanto al coprotagonista del
libro, Michele, la sua devozione per
lo scrittore-idolo Arbasino la si era
intuita leggendo le sue cose sul «Foglio» o su «Rivista Studio», e il romanzo
Addio, Monti (2014), e soprattutto il
reportage dalla California Steve Jobs
non abita più qui (2020), perché Masneri scrive un po' come Arbasino
sia nella lingua (forbitissimo stile
"parlato", paratassi, polisindeti,
frasi senza verbo, congiunzioni e
avverbi in posizione marcata) sia
nella scelta del punto di vista (osservatore partecipante, diciamo, ma
bene attento a mantenersi a debita
distanza emotiva dai fatti o dai libri
raccontati), sia nel tono blasé (Never
explain, never complain, solo i cretini
s'indignano ecc.). Quanto al resto,
ha letto meno libri e visto meno mostre, il che quasi sempre lo salva dal
name-dropping arbasinesco, ma in
compenso è più simpatico, spiritoso, affettuoso, umano, aperto al
mondo, giovane.
Entrare nell'opera di Arbasino
non è facile. Il narratore richiede
un'attenzione e una pazienza che
oggi molti lettori non hanno; e il
saggista allude, evoca, non spiega,
e si fa più opaco e stenografico, e
spesso irritante, a mano a mano che
gli anni passano. Quindi ognuno
deve trovare la sua porta. I coraggiosi possono affrontare Fratelli
d'Italia, magari col metodo-Masneri: «L'Arbasino definitivo: è inutile
pretendere di leggerlo dall'inizio.
Va aperto a caso, come l'I Ching»
(ma non vale anche per gli altri libri?). Più amichevoli i diari di viaggio raccolti in Trans-Pacific Express;
mentre i letterati hanno Certi romanzi e Sessanta posizioni; e chi vuol
sapere come si sono vissuti i mesi
del sequestro Moro può cominciare
con In questo Stato. Ma adesso mi
pare che Stile Alberto sia una porta
perfetta: dice quel che va detto dell'Uomo, rendendolo irresistibilmente simpatico anche se non doveva essere simpatico nel senso corrente del termine; e l'Opera la guarda di traverso, com'è giusto (molto
bella l'idea della «bibliografia confidenziale» in appendice), e con, disseminati nel racconto, brani scelti
con mano felicissima (in esergo la
chiusa di un racconto giovanile, Distesa estate, così mirabile che non
bisogna farsi sfuggire l'occasione di
ri- citarla: «Addio fiori scale orologio immobile giochi perduti; non
sarò ragazzo mai più e neanch'io lo
vorrei, però mi è piaciuto molto»). E
allo stesso prezzo si fa la conoscenza di un altro scrittore che conta tra
i più originali e intelligenti di oggi.