Luigi Ghirri è un fotografo?
Certo, Ghirri è stato uno dei
più grandi fotografi del Novecento: in assoluto. Eppure applicando il termine in modo tradizionale, di Ghiri sfugge molto, forse tutto. «Sarà che mi interessavano talmente gli atlanti che la vocazione
del fotoreporter giramondo non mi
ha mai sfiorato» dice in una intervista, contenuta in Niente antico sotto il sole, con cui Quodlibet riporta
finalmente in libreria la raccolta
completa degli scritti (pagine 358,
euro 22,00). E che la domanda sia
del tutto lecita lo dimostra la mostra
ottimamente curata da Ilaria Campioli a Sassuolo, con le fotografie -
in gran parte inedite - realizzate da
Ghirri per le ceramiche Marazzi tra
1975 e 1985. Non si tratta di fotografia industriale o destinata alla
pubblicità ma il frutto di un rapporto di amicizia e di mecenatismo.
Ghirri produce immagini di superfici coperte di ceramiche bianche,
teatrini prospettici, quadri e specchi, oggetti veri e rappresentati. Con
ironia Ghirri riconosce nella piastrella il canone, la misura proporzionale del mondo, la griglia che irreggimenta spazio e visione. La ceramica per Ghirri è la materializzazione di uno spazio assoluto: «"oggetto" su cui si vengono a posare altri oggetti: i mobili i gesti, le immagini, le ombre delle persone che abitano quegli spazi». La ceramica
diventa analogia della fotografia,
così come la quadrettatura dello
spazio regolato dalle piastrelle è equivalente della quadrettatura del
mirino fotografico a sua volta, come spiegava in una lezione ai suoi
studenti di Reggio Emilia, identico
«per certi versi alla quadrettatura di
una lavagna per imparare a scrivere o a disegnare».
Appare chiaro come Ghirri risulti più
affine agli artisti concettuali di quegli anni che ai colleghi fotografi. Nel
1974 scriveva di non avere «mai amato le fotografie della "natura"»,
definendo il «disperato tentativo di
bloccare il "momento naturale" una
contraddizione insanabile con il linguaggio fotografico. È già infatti la
scoperta della visione rinascimentale, tramite la camera obscura, avvenuta non a caso in una sfera intellettuale urbana, che esclude in
larga misurauna visione "naturale"».
Ma se in quegli anni per gli artisti la
fotografia aveva lo scopo di documentare performance o ne era un
dispositivo strutturale (Franco Vaccari), Ghirri si concentra sull'oggetto fotografico in quanto tale.
In L'enigma fotografia, testo fondamentale de11987, Ghirri scrive: «Daguerre, avvicinandosi per primo alla frontiera del già visto e contemporaneamente del mai visto, intuisce che da quel momento lavita degli uomini sarà accompagnata da
questo doppio sguardo, da uno scarto, una specie di alone che abiterà
persone e luoghi; un doppio sguardo sul mondo visibile presente o evocato e sul mondo visibile fotografato. (...) il sottile fascino malefico
della doppia visione che si ha quando si osserva una fotografia, seduzione della differenza che esiste tra
la cosa e la cosa fotografata, lo scarto percettivo del doppio sguardo che
continua a catturarci». Per Ghirri,
che immerge questo "mistero" in una continua mise en abyme, il senso
della fotografia è in uno iato, una
scollatura dove invece il senso comune vede identità. Con spirito magrittiano, Ghirri fotografa la distanza tra la realtà e il codice, la tensione nello spazio intermedio tra foto
e grafia, il vedere e la sua riscrittura.
Ghirri non è fotografo, dunque, perché la sua fotografiavienc prima della fotografia stessa. L'accumulo del
frammento fotografico non è in grado di ricostruire il reale, in quanto
sempre eccedente: è ciò che sta oltre il margine fotografico. Il reale lo
si conosce solo attraverso la sintesi
archetipizzante della mappa (Atlante, In scala) e della griglia percettiva, ossia degli strumenti che
mediano la conoscenza del reale filtrando il rumore bianco della totalità dei fenomeni. Topografia e iconografia sono, per noi, il mondo. Il
senso della fotografia sta allora nella sua impossibilità di coincidere
con il reale, nel suo essere medium:
ciò che sta in mezzo. Parlando diInfinito, progetto del 1974 che prevedeva un'immagine del cielo al giorno per un anno intero, Ghirri scriveva che è «in questa non possibile
delimitazione del mondo fisico, delle natura, dell'uomo che la fotografia trova validità e senso. In questo
suo non essere linguaggio assoluto,
nel farci riconoscere la non delimitabilità del reale trova la sua naturalità e la sua autonomia».