Recensioni / Libri e altro: Civita. Senza Aggettivi e Senza Altre Specificazioni

«Meglio vederla prima che sia troppo tardi». Sono queste le parole che ritornano più spesso sulla bocca dei tanti, tantissimi, che si riversano ogni anno e in numero sempre crescente sullo stretto ponte in cemento armato che porta a Civita di Bagnoregio, La Città che Muore, appunto.
Eppure ciò che li attende al di là di quel ponte è tutto fuorché una città morente. Vi si trova, al contrario, vivissimo in tutte le sue aspre contraddizioni, uno dei campi d’osservazione privilegiati di quella che a più voci è stata definita come l’industria più strutturalmente rilevante del nostro tempo, quella turistica (M. D’Eramo, 2017, Il selfie del mondo: indagine sull'età del turismo, Feltrinelli Editore, Milano). Se tale definizione può dirsi ormai pacifica e condivisa, però, assai meno chiari appaiono tanto le radici e i moventi quanto le prospettive future di un movimento globale (J. Larsen & J. Urry, J., 2016, Mobilities, networks, geographies, Routledge, Londra) in cui tutti sembriamo inesorabilmente immersi, e a cui persino la pandemia ancora in corso sembra aver imposto una pausa utile solo ad una sua più imponente riproposizione. Quali sono allora i rischi, le ricadute, le alternative possibili ad una riorganizzazione del capitale che vede consegnare al consumo e all’esibizione spettacolare (G. Agamben, 2005, Profanazioni, Nottetempo Edizioni, Milano) tanto i luoghi quanto gli immaginari ad essi sottesi? Il tema è complesso, appassionante e urgente, così come complesso, appassionante e urgente è il lavoro che è chiamato a fare chi si occupa di territorio oggi, chi intende indagare le molteplici e inedite modalità di abitare che in esso si danno.
Con Civita-Senza aggettivi e senza altre specificazioni, Giovanni Attili, con ampio respiro e parole attente, risponde a questa chiamata. Lo fa invitandoci ad entrare con lui in questo campo d’osservazione, a guardare al passato e al futuro di molti a partire dalla storia di pochi. Lo fa prendendosi la responsabilità di voler raccontare una storia minuta, quella di un piccolo paese arroccato su una terra instabile e impegnato da secoli a rimandare la sua fine, che come tante storie minute, se guardata a fondo e con attenzione, ha in sé la potenza e la meraviglia delle narrazioni universali.
Tra idios, il particolare, e nomos, il generale, abitano la storia e il futuro di Civita, in cui non fatichiamo a riconoscerci. Lo dice bene Giorgio Agamben nella sua prefazione al libro, ovvero che ciò che è davvero in questione, nella storia di Civita così come affrontata da Attili, è il modo della dimora degli uomini sulla terra.
Ma una storia, per quanto minuta che sia, per avere carattere universale deve saper scavare nel profondo, interrogare voci, memorie, luoghi, immagini, progetti. Per fare ciò l’autore mette in piedi un racconto corale, scompone e ricuce, per sua stessa ammissione, testimonianze, resoconti, innesti teorici e li accompagna ad un imponente apparato iconografico, frutto di una lunga e ispiratrice ricerca d’archivio a cui l’editore Quodlibet ha reso sapientemente giustizia.
Da questo denso lavoro emerge un’opera in tre atti, tre differenti momenti che raccontano tre diverse e specifiche modalità di abitare un territorio tanto aspro quanto capace di generare legami profondissimi e inattesi.
È così che Civita, il cui nome stesso indicherebbe già un’assenza, che come ci dice l’autore è quasi sempre perdita, di una denominazione propria e specifica, acquisisce nel racconto, di volta in volta, una diversa connotazione: Terra madre e matrigna, Terra d’Adozione, Terra di Spettacolo.
Madre e matrigna come lo sono stati tanti paesi di un’Italia che da alcuni decenni si racconta come un paese di pianura pur essendo in larga parte un paese di montagna, secondo una felice espressione di Marco Paolini. Una terra in cui alla durezza della vita contadina premoderna si sono aggiunte le difficoltà di un suolo argilloso e fragile, che più volte nei secoli ha ceduto, portando via con sé case e persone.
Asperità a cui i civitonici hanno contrapposto resistenza e caparbietà, facendo del loro attaccamento alla terra un vero e proprio atto di fede, fiero e ostinato. Il passato di Civita, ci dice Attili, è la storia di una relazione vitale e operosa che la sua comunità ha da sempre costruito con un territorio «pericolante e in continua riparazione». E proprio quando questa relazione sembra interrompersi, però, quando il boom economico e la promessa di comfort e benessere di ima vita cittadina sembrano dare l’ultima spinta al lento ma inesorabile spopolamento del borgo, che Civita muta, rinasce, e lo fa per mezzo di ima comunità straniera, mutevole e instabile ma accomunata da un innamoramento viscerale verso questa terra, dal desiderio di curarla per esserne curati. In molti casi estremi sono proprio gli ospiti, gli stranieri, ci dice Alberto Magnaghi, a saper riconoscere e coltivare l’anima di un luogo. 
Civita diventa così terra d’adozione per un gruppo composito di artisti, architetti, pittori ed eccentrici aristocratici che, nel bene e nel male, hanno impedito l’abbandono e innescato un processo di recupero edilizio e salvaguardia di una memoria storica apparentemente destinata a soccombere all’oblio della modernità.
Prima tra tutti a prendersi carico di questa adozione, a farne ragione di vita e minuziosa e incessante opera di cura è Astra Zarina, profuga lettone e architetta, prima donna a vincere nel 1960 il Rome prize dell’Accademia Americana di Roma. Arrivata a Civita nei primi anni 60, Astra vi passerà gran parte della propria vita, sino alla fine, lavorando e lottando per la salvaguardia del paese e mettendo in piedi una scuola residenziale di architettura per studenti americani che porterà per trent’anni, nel cuore di Civita, lo sguardo e la forza di una comunità squisitamente urbana che finirà col riconoscersi come civitonica. Esempio virtuoso di quella commistione possibile, tante volte augurabile, tra urbano e rurale, dove il secondo non soccombe a desideri e bisogni del primo, come troppo spesso accade, ma il nutrimento è reciproco. Aver dato voce e riconoscimento alla storia e al prezioso lavoro di Astra è probabilmente imo tra i meriti più grandi di questo libro.
Infine terra di spettacolo, poiché come già si diceva Civita è oggi ima delle mete più note di una forma di turismo crescente, quello che ha per oggetto i borghi, le aree interne del Paese. Ma in particolare Civita è divenuta, suo malgrado, emblema di ima modalità specifica di fruizione turistica dei luoghi, ahimè maggioritaria, ovvero quella di un turismo di massa, mordi e fuggi. Con un milione di turisti l’anno nel solo 2018 (contro 10 residenti stabili e 50 abitanti di seconde case), i biglietti a pagamento per l’entrata, i negozi di souvenir posticci, calamite e portachiavi, Civita sembra aver ormai preso la china di una museificazione compiuta, un «tableau vivant a pagamento» dove tutto è messo in scena, dove non vi è spazio per alcuna fruizione che non sia turistica. A Civita oggi, ci dice Attili, la vita è sepolta sotto un cumulo di flash.
Eppure in tanti parlano di modello Civita, riferimento imprescindibile per chi vuole puntare oggi sul rilancio turistico. Persino nel momento in cui il mondo si è fermato, e i limiti e i rischi di un’economia basata sulla monocoltura turistica si sono palesati come mai prima d’ora, la lezione sembra essere stata recepita per le cosiddette città d’arte, per i centri storici dei nostri capoluoghi, ma non per le aree interne del Paese che, anzi, risultano investite da un interesse inedito, meta privilegiata di una fuga dalle città ancora da darsi, ma che porta già con sé investimenti, infrastrutturazioni e progetti in larga parte informati secondo un’idea di campagna immaginata ancora una volta ad uso e consumo della città (A. De Rossi, a cura di, 2019, Riabitare l'Italia: le aree interne tra abbandoni e riconquiste, Donzelli editore. Roma).
Mettere in crisi questo modello senza scivolare in una critica del turismo tout-court è impresa ardua ma necessaria, a cui l’autore non si sottrae. Senza passatismi o invocazioni di paradisi perduti, Attili ci accompagna piuttosto nell’immaginazione di nuove utopie realizzabili, di alleanze capaci di rompere l’egemonia monoculturale del turismo e di abbracciare la crisi, riappropriandosi di una temporalità ciclica, fatta di distruzioni e rinascite, che ha sempre scandito la storia di Civita nel cercare dal limite nuova vita. Ci invita a saper dire dei no, magnifica parola,
secondo l’insegnamento di Mariangela Gualtieri che l’autore fa proprio e a ricomporre quel legame tra uomo e natura, «flusso irrefrenabile» la cui recisione è stata resa ancor più evidente dalla pandemia. Ci chiede, in altre parole, di assumerci il compito più difficile e più bello, quello di ribaltare un immaginario, di crearne collettivamente di nuovi.