Recensioni / Ritratto di Arbasino. Conversazione con Michele Masneri

La morte di Alberto Arbasino dello scorso anno ha segnato la scomparsa di uno maggiori scrittori della seconda metà del Novecento, capace di spaziare dalla narrativa, con opere dense, vertiginose e continuamente riscritte, al reportage, sempre puntuale e immaginifico, alla critica, ed era indifferente fosse letteraria, di costume, teatrale o cinematografica, fino all'arte insuperata delle interviste con i più importanti testimoni del Novecento. A tenere insieme un'opera sfilacciata e amplissima sta il suo stile letterario, tanto riconoscibile quanto inafferrabile, quello “stile”, che si dipana quindi nella varietà dei suoi lavori e che figura nel titolo di Stile Alberto (Quodlibet) di Michele Masneri, un libro dove il giornalista e scrittore bresciano prova a inseguire l'ombra del suo maestro assecondando le strade tracciate dai suoi libri, ma anche, elegantemente e con divertimento, il suo lato più riservato. In un'opera che comunica con il lettore attraverso il testo e le immagini (da alcune fotografie scattate dallo stesso Masneri a quelle di Paolo Di Paolo), Masneri, che ha corteggiato e poi frequentato Arbasino una volta trasferitosi a Roma, prova a fare i conti con un'eredità a oggi incapace di essere raccolta costruendo un libro che è tanto una raccolta di appunti sullo scrittore di Voghera quanto un invito a conoscere (o rileggere) la sua opera.

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Stile Alberto è un libro che mi sembra soddisfare due esigenze, una personale, l'altra dal carattere più “divulgativo”. Partiamo dalla prima. Tu hai frequentato Arbasino, dopo averlo letto e, per certi versi, dopo aver percorso un cursus honorum simile al suo (mi riferisco alla carriera diplomatica che poi, come lui, hai abbandonato, al giornalismo), e nel libro emerge come si sia trattato di un'esperienza fondante non solo appunto per questa frequentazione, ma anche per la tua educazione sentimentale avvenuta tra le pagine della sua opera. Ma come accade con i “maestri” arriva il momento di farci i conti. È questa una delle motivazioni che ti ha spinto a scrivere questo libro dove muovi dal tuo innamoramento giovanile verso Arbasino fino ai giudizi dell'età adulta?
Sì, sicuramente. Quando è morto, l’anno scorso, per me è stato un po’ come se un certo mondo, forse proprio quello dell’apprendistato, finisse. Ho capito anche che avevo bisogno di scrivere questa storia, e che fosse giusto farlo.

Riguardo la seconda esigenza invece, credo che Arbasino rappresenti alla perfezione uno dei vizi più in voga e più inestirpabili tra gli intellettuali, veri o presunti, e i lettori forti, e perdona il disgraziato aggettivo, perché molti ne parlano ma pochi lo hanno letto o lo leggono. Stile Alberto mi pare serva anche a suggerire ipotetici percorsi all'interno della sua opera e, soprattutto, salva molti dalla domanda un po' imbarazzata su quale sia il luogo migliore per iniziare a leggere Arbasino.
Guarda, sicuramente c’è anche, come dici bene tu, quest’esigenza “pedagogica”. Farlo conoscere a chi non l’ha mai letto, e soprattutto ai più giovani, in una chiave molto personale, un po' “Come Arbasino mi ha cambiato la vita”, anche in maniera divertente, perché Arbasino era uno scrittore molto divertente, questo è importante da dire. Forse è il caso più eclatante di un autore che ti fa divertire imparando delle cose. E questo in un paese in cui invece gli scrittori, per essere considerati “seri”, devono prendersi loro tremendamente sul serio, ed essere “fatti a forma di intellettuale”; scarmigliati e dolenti e con un repertorio di storie tragiche.
Il tuo libro, che ha inaugurato insieme a una spassosa raccolta di interventi e racconti di Mark Twain sulla lingua tedesca una nuova collana di Quodlibet, “Storie”, è un'opera dallo statuto particolare già solo assecondando i suoi aspetti visivi. Il tuo testo è infatti frammentato da molte immagini, quelle di Paolo Di Paolo (e non solo di Arbasino, ma anche di Gadda o Pasolini), di Giovanna Silva da casa Arbasino oppure l'immagine di copertina elaborata da Francesco Vezzoli a partire sempre da un ritratto di Di Paolo. Ci sono poi, e questo mi pare ancor più interessante, delle tue fotografie che hanno certamente un valore documentario, ma sono anche un altro lato della narrazione. Qual è la tua idea rispetto a questa cooperazione tra parole e immagini?
Non avevo mai pensato a un libro con immagini, ma poi mi sembrava che mancasse qualcosa. Da una parte Arbasino è stato sempre uno sperimentatore, che ha esplorato e forzato molto le strutture narrative (dal romanzo, alla poesia, al musical, al libretto d’opera); dall’altra c’era il suo lato visuale che era parte integrante dell’essere Arbasino: la sua casa coi soffitti da studio 54, le cartoline che mandava agli amici, gli articoli di giornale; erano tutte cose che secondo me andavano mostrate. Infine volevo rendere anche l’idea che fosse un libro disordinato, com’è, una specie di accumularsi di materiali, di diario, di scartafaccio. Nei lunghi mesi del Covid sono andato a riprendermi appunti che avevo preso anni fa, foto che gli avevo fatto, biglietti che mandava agli amici (cit.), vecchi articoli ritagliati. Poi, ancora, è arrivata l’idea di collaborare con due artisti come Vezzoli e Di Paolo, che in un modo nell’altro “c’entravano” con questa storia. E infine di metterci un inserto molto pop e patinato, nello stile del Weekend postmoderno di Tondelli, con le foto di Giovanna Silva che aveva fotografato casa Arbasino nel 2013. E’ stato tutto molto naturale, oltre che molto bello da fare.

Come Arbasino anche tu vivi, almeno per un po' di tempo, a Roma e, sempre come Arbasino che veniva da Voghera, vieni dalla provincia, da Brescia: nel libro sottolinei cosa significava trasferirsi a Roma quando lo ha fatto Arbasino, ed emerge anche un confronto all'apparenza impietoso tra la sua Roma e quella di oggi, tra cosa trovò lì Arbasino e quello che ci trovi tu. Secondo Arbasino dov'erano finiti quei caratteri nel corso dei decenni? Si tratta di una scomparsa o sono migrati in altri luoghi?
Lui aveva vissuto la grandeur della capitale del Dopoguerra, con Cinecittà e i divi, la Taylor a via Veneto, Gore Vidal residente stabile e Truman Capote in visita. Ma alla fine ci è rimasto anche nel suo lento declino, e non è mai emigrato: mi pare che non abbia mai avuto un giudizio eccessivamente severo su quella città in cui diceva di essere “rinato”, da giovane, pur ovviamente capendo che la centralità di un tempo era andata perduta.

Nel tuo romanzo Addio, Monti hai descritto il caos della città, l'arrembante energia dei romani, i lapsus di un mondo intellettuale defunto e la resistenza dei radical chic in tempi di crisi economica e culturale. Il rione Monti di Roma diventa un micromondo che richiama a sé Milano, la Svizzera, gli Stati Uniti, ma che in fondo si rivela solo un concentrato di provincialità dell'high society. Anche considerando il tuo spostamento da Brescia a Roma, ha ancora senso, oggi, cercare differenze tra la provincia e la grande città?
Be’, sì, direi che nonostante tutti i livellamenti, che ci sono, c’è sempre una gran differenza. La differenza sta fondamentalmente nel fatto che se stai in provincia è la provincia che decide con chi tu parli. Nella grande città e nella capitale, sei tu che decidi. Puoi scegliere. Poi, appunto, la provincia, almeno quella da cui vengo io, è cambiata molto, è molto migliorata negli ultimi anni, la Rete ha unificato tutto, ai miei tempi i miei cugini di Milano parlavano una lingua e si vestivano in un modo diverso da quello mio e dei miei fratelli. Adesso parlano tutti e si vestono tutti nello stesso modo (e non lo dico con rimpianto, anzi). Però la differenza sta nella libertà, che ti è data solo dalla dimensione e dal numero di persone che hanno scelto di abitarci, in un posto.

Nel tuo Steve Jobs non abita più qui, libro di viaggio, cronaca letteraria, ma anche saggio straordinario di storia del costume, mi pare ci sia una relazione con un altro grande libro di Arbasino, America amore, che scatena anche una domanda suggestiva: cosa avrebbe scritto Arbasino del nuovo centro tecnologico e culturale mondiale, la California? Mi pare che esista, tra ovvie differenze, anche una comunanza tra i vostri sguardi, entrambi letterari, precisi, ma anche irriverenti e provocatori sui costumi che cambiano.
In realtà il mio Steve Jobs non abita più qui non è direttamente ispirato a quel bellissimo libro. Cioè, cercavo di non pensarci troppo mentre lo scrivevo, e di non leggerlo neanche troppo mentre stavo negli Stati Uniti, per non farmi condizionare. Perché il problema con Arbasino è che la sua lingua è così folgorante e il suo “sistema” così seducente che, prima che tu te ne renda conto, sei diventato un ventriloquo, è come uno spirito che ti entra dentro e ti possiede. Non so cosa direbbe oggi della California, che era forse il suo posto preferito (questo l’ho scoperto dopo). E ho avuto modo di parlare con lui soprattutto di San Francisco, città che amava molto, e dove scendeva in quello che – ovviamente – era ed è il miglior hotel della città, il Fairmont, tra i palazzoni hitchcockiani. Me ne chiedeva sempre notizie.

Osservando in maniera organica le opere di Arbasino, emergono due aspetti letterari interessanti e degni di attenzione. Prima di tutto la riscrittura, ovvero l'idea di un romanzo infinito, un continuo work in progress di cui è straordinaria testimonianza il romanzo Fratelli d'Italia, che nel corso dei decenni ha subito rimaneggiamenti, aggiunte e riscritture. L'altro aspetto, per certi versi forse legato a questo, all'esaurirsi del romanzo come esperimento, è la scelta, a un certo punto, di non scrivere più romanzi. C'è in effetti un legame tra questi due aspetti? Quali sono secondo te le motivazioni?
Intanto lui si collocava in un nobile solco, quello dei “riscrittori”, dunque Manzoni e Gadda, soprattutto. Poi appunto a un certo punto si stufa della forma romanzesca e preferisce dedicarsi al saggio e al reportage, cosa che forse gli riesce anche meglio, peraltro. Poi va ricordato che Arbasino rimaneva ancorato a un punto di vista prettamente sperimentale, per cui non inseguiva certo l’idea del romanzo classico. I suoi sono tutti anti-romanzi, sono operazioni critiche, coi personaggi che “sono solo funzioni”, come amava ripetere. A un certo punto ha deciso che le sperimentazioni erano finite.

Nel tuo libro dedichi attenzione a una vicenda molto intrigante, ovvero la “questione Petrolio”, riferendoti a quella parte dell'edizione del 1993 di Fratelli d'Italia dove si parla, in maniera estesa, di crisi petrolifera, dell'ENI, degli argomenti che contraddistinguono appunto la grande opera incompiuta, e postuma, di Pasolini (uscita tra l'altro appena l'anno precedente, nel 1992). Probabilmente si tratta anche di una strada per indagare la relazione tra Arbasino e Pasolini, come fai tu nel libro, che è stata particolare e non priva di frizioni anche se Pasolini fu il suo primo editor.
Nell’ultima versione dei Fratelli d’Italia, quella del ’93, nella parte finale, c’è un romanzo nel romanzo, è quello che il protagonista Antonio sta scrivendo, e in quella versione c’è una parte molto più lunga rispetto alle altre. Parla dell’Eni, della crisi petrolifera, insomma degli stessi temi del romanzo perduto di Pasolini, quello che secondo alcuni sarebbe addirittura la causa del suo omicidio. Mi hanno raccontato che mentre Arbasino stava lavorando a quest’ultima versione era molto preoccupato e angosciato che gli rubassero il manoscritto, e dunque lo teneva in cassetta di sicurezza. Insomma, si tratterebbe di due “petroli” paralleli. Che sono interessanti soprattutto per capire anche la relazione molto complicata tra i due: Arbasino esordì infatti grazie a Pasolini, che lo fece debuttare con le sue poesie sulla rivista “Officina”. Facendogli però delle critiche tremende (finto disinvolto, finto cosmopolita, ecc.). Arbasino restituisce il favore, quando molti anni dopo uscì Petrolio, con una recensione un po’ isterica e perfida. In realtà quando Pasolini fu assassinato per Arbasino fu uno choc profondissimo. E a casa sua mi ricordo appeso un carboncino, opera dello stesso Pasolini, che ritraeva le loro due facce, la sua e quella di Alberto, sovrapposte.

Dal tuo libro emerge anche l'interesse di Arbasino nei confronti di Pier Vittorio Tondelli, nutrito probabilmente, e come hai avuto modo di dire, dall'omosessualità vissuta come normalità, con le relative conseguenze sulla trasposizione narrativa del tema, oltre che da una vicinanza rispetto agli esperimenti linguistici. Che tipo di interesse nutriva Arbasino verso l'opera di Tondelli?
Arbasino si era interessato a Tondelli come faceva per alcuni fenomeni nuovi che vedeva arrivare. Per esempio gli piaceva il primo Bret Easton Ellis. E sicuramente era incuriosito da Tondelli, che del resto aveva subito messo in chiaro di ispirarsi molto allo scrittore di Voghera. Sia per la lingua, sia per i suoi reportage e il giornalismo culturale. Arbasino si dispiacque molto quando Tondelli morì, nel ’91, e però ai tempi era abbastanza severo sul suo seguace: “ah, se avesse fatto degli studi seri, e non il Dams”, diceva…

Arbasino non ha mai nascosto il suo interesse per alcuni autori ottocenteschi, tra gli altri Balzac o Saint Simon o Carlo Dossi, o suoi contemporanei, come Gadda ovviamente, ma anche Capote per esempio, ma c'erano anche altri autori contemporanei, italiani e stranieri, che Arbasino apprezzava particolarmente? Cosa cercava nella letteratura?
Sicuramente tra i suoi “maggiori” c’erano Gadda ma anche e soprattutto Roberto Longhi, storico e critico dell’arte che Arbasino aveva eletto a “massimo stilista italiano”, di cui ricreava quel modo di descrivere le cose molto visuale ed efficace (in lui “l’occhio e la lingua sono parimenti eccelsi”, scriveva); “ricognizione visiva e investigazione lessicale”, non solo nella ricerca della “parola ineluttabile”, ma cercando il massimo risultato espressivo anche con accostamenti impervi, per cui invece di dire “con grandi orecchie” scrive magari con “orecchie da Mickey Mouse”. Altre influenze direi Ivy Compton-Burnett per i dialoghi secchi e privi di psicologia; Ronald Firbank per l’umorismo scatenato e camp. Balzac, come dici bene, e Proust, di cui però denunciava l’equivoco, per cui qualunque faccenda relativa a memorie infantili diventa “proustiana”, mentre lui ammirava, della Recherche, la forma e la struttura circolari. E tra i grandi sperimentatori Joyce e Musil. Sul versante camp, anche D’Annunzio, per la ricerca linguistica ed etnografica sul carattere degli italiani; chiaramente Fitzgerald per certe immagini. E poi la poesia, da Baudelaire e T. S. Eliot – in casa teneva come un cimelio una copia con dedica della Terra desolata. Dei quasi-contemporanei stranieri gli piaceva certamente Isherwood, e Capote non direi. Se lo amava lo faceva segretamente, forse invidioso del suo successo globale: ma ufficialmente gli destinava feroci prese in giro (lui a Roma con la moglie dello sceriffo che l’aveva aiutato per A sangue freddo, descritti come turisti scombinati; lui ospite di casa Agnelli a Torino estasiato per la biancheria; lui ormai vecchio e orrendo in costume da bagno in California…).

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