tentativi di mappatura della poesia contemporanea italiana costituiscono ormai un sottogenere
della scrittura critica e accademica. E
però, con sforzi di originalità esauriti
per lo più nell'aggiunta di qualche
nome a un canone sempre più sclerotizzato, rare sono le proposte che sparigliano classificazioni e etichettature consolidate. Fabio Moliterni, docente di Letteratura italiana contemporanea all'Università del Salento,
pare ben conscio di tali limiti e, nel
suo nuovo testo, Una contesa che dura. Poeti italiani del Novecento e
contemporanei (Quodlibet, Macerata
2021, pp. 208, euro 22) raccoglie saggi
che, se non esauriscono la ricognizione, quanto meno lanciano segnali
per una riconsiderazione complessiva del territorio. Si tratta di saggi apparsi in altre sedi, come l'introduzione al carteggio Sereni-Roversi, che
Salentino ed europeo Girolamo Comi
abbiamo già avuto modo di elogiare.
C'è spazio per voci distanti, in un arco
che va da Clemente Rebora ad Andrea
Inglese.
Molto interessanti risultano, e non
solo per conterraneità, i contributi
dedicati a due pugliesi: Girolamo Comi e Vittorio Bodini. Richiamando in
più punti pensieri di Giorgio Agamben, Moliterni adopera i due autori
come grimaldelli per scardinare tassonomie inveterate nella critica nazionale e per abbozzare quelle che,
citando direttamente il filosofo, sarebbero le «mappe tradite della poesia del Novecento». Certo, le vicende
biografiche (la formazione all'estero,
la Grande Guerra, le ideologie filof asciste, l'esilio salentino) non hanno
giovato all'inserimento di Comi in linee e correnti egemoni, sottraendolo
da subito alle attenzioni di critici e
poeti influenti. E tuttavia, gli argomenti dell'isolamento, dell'anacronismo, dell'esoterismo, che, a volte meri luoghi comuni, il suo percorso evoca, non esauriscono un'esperienza
che, invece, evidenzia relazioni socioculturali numerose e complesse,
presenza piena nel proprio tempo (in
una dimensione europea spesso allena ad altri nomi più noti della poesia
italiana: si pensi all'ammirazione precoce per Joyce) e una scelta «ortica»
che, è ancora Agamben a ricordarcelo, non è il rigurgito Novecentesco di
simbolismi obsoleti, ma una via viva
e assolutizzante della lirica contemporanea.
La stessa ricontestualizzazione di
Bodini, condotta ai margini del lungo
carteggio con Anceschi, consente
una lettura del poeta «barocco» e del
traduttore ispanista (veste che ha finito per soffocare il poeta) in una
chiave modernista, affine alle più
proficue sperimentazioni europee.