Fu uno dei pochi moralisti senza calcoli e cinismiolendo scrivere un
libro di ricordi e devozioni su Alberto Arbasino (letterato e
critico della cultura
senza eguali, e mica
soltanto di qua da
Chiasso) c'è un modello arbasiniano
pronto all'uso: L'ingegnere in blu, il mirabile pamphlet che Arbasino, nel 2008, dedicò a Carlo Emilio
Gadda, suo ispiratore e prototipo. (Non
diciamo «maestro»,
meglio zio o nonno, e
gli emuli suoi «nipotini», che sappiamo
tutti come s'accede
al titolo di «maestri»
secondo un Arbasino
qui particolarmente ispirato:
prima «belle promesse», poi
«soliti stronzi», e alla fine della fiera — fortuna, talento e arruffianamenti aiutando — ecco «pochi fortunati» salire sul
podio per ricevere la medaglia
di «venerati maestri»).
Arbasino lodò l'ingegnere in blu (e prese a modello la
sua scrittura prismatica, le
frasi labirintiche e tip-tap nelle quali si riflette il mondo per
intero) per la sua opera e per
la sua stravaganza, l'una inseparabile dall'altra: l'umorismo attonito e disperato della
sua prosa («nel groviglio e nel
pasticcio un'oscura tecnica conoscitiva e un'arcana fisiologia dell'Universo») e gli aneddoti buffi e strazianti, da commedia all'italiana anni cinquanta, che illustrano la sua
vita, per esempio quando «Attilio Bertolucci racconta
d'averlo visto correre dietro
un autobus con quattro enormi panettoni di San Biagio
(due al prezzo di uno) davanti
al Berardo di piazza Colonna».
Arbasino illustrò le opere, i
giorni e l'audaci imprese del
Gran Lombardo con affetto e
senza «la pur minima» traccia
della gravità che si deve ai
Grandi (e che li rimpicciolisce,
o peggio): all'ingegnere in blu
(con la sua flemma demodé
d'imbucato «nella Roma di
Avanti c'è posto! e di Umberto
D.») andava risparmiato il destino d'essere trasformato, dopo morto, in maestro mica poi
tanto venerato, o in un altro
Busto al Pincio presto eretto e
presto dimenticato (tipo Moravia, o Pratolini, o Montanelli, o Scalfari già da vivo).
Tutto questo per dire, venendo avventurosamente
al punto, che Michele Masneri, autore di questo Stile
Alberto, e tempo fa anche d'un
bel reportage dalla Silicon Valley, Steve Jobs non abita più
qui, Adelphi 2020, loda l'opera e la divertita eleganza d'Arbasino con lo stesso affetto e lo
stesso rispetto che Arbasino riservava a Gadda, campione
d'illuminismo e di lingua visionaria. Solo che Arbasino non
corre dietro gli autobus reggendo quattro panettoni e non
offre il fianco al ritratto buffo,
alla cordiale canzonatura.
Prenderlo per nostalgia, illustrarlo attraverso l'amore
per le cartoline e il fastidio per
i rompiballe, e tirarlo insomma per la giacchetta degli
aneddoti non è facile, e nemmeno bello.
Quindi Masneri
neanche ci prova.
Ma che strada rimane? Be', rimane l'elogio, che nel caso
d'Arbasino può essere soltanto elogio
sfrenato, da nerd
dell'arbasinesimo.
Con questo sovrappiù, forse inevitabile, di venerazione nerd, Arbasino, in Stile Alberto, la fa un po' da
Mick Jagger. Non
è soltanto bravo (e
bravo è dire poco,
perché qui stiamo parlando
d'uno dei pochi moralisti senza calcoli e cinismi, anzi l'unico di questa specie, che il Novecento italiano abbia messo in
pista).
Non solo bravo-bravissimo:
qui Arbasino è «praticamente
perfetto», se
non come un
venerato maestro, come Mary Poppins.
Masneri lo accosta con deferenza, che sarà anche giustificata, per
carità, ma insomma l'uomo doveva essere divertente, e immagino che la soggezione e l'ossequio, da
quel che ne ho
capito leggendolo per più
annidi quanti
mi convenga
contarne, gli
andassero
stretti (diversamente da
Gadda, che
forse un po' ci teneva, ma niente: trovò i suoi nerd solo in età avanzata, spente le passioni).
«Romantico preso a calci dal destino», come Gadda si proclamava da sé, l'autore del Pasticciaccio, di Eros e
Priapo, della Cognizione del
dolore lavorava sotto incantesimo, posseduto dall'angelo
stevensoniano del romanzo-magnete, che attira tutto a
sé, scienza e poesia, melodramma, téchne, «giallo»,
feuilleton, senza dimenticare
«la Storia e il Positivismo, Einstein e Leibniz, Spinoza e
Michelet, e le matematiche e
una filologia "selvaggia" e una
psicanalisi "meccanica" e
un'oscura fenomenologia del
povero Inconscio "umiliato e
offeso"». C'era qualcosa di questa dismisura, come tramandano i testimoni, anche nella
sua vita quotidiana, «tra casa
e trattoria».
Con Arbasino, al netto
anche dei suoi «macchinosi interessi» culturali, niente invasamenti, niente sovrappiù.
Al di là delle apparenze,
dei turbini di rimandi e citazioni; al di là delle preziosità
vertiginose, delle «liste», dei
tocchi e ritocchi, delle ricercatezze e delle iperboli formali,
la scrittura di Arbasino è sobria, e assolutamente chiara.
Idem, immagino, anche la
sua vita: i viaggi, il guardaroba, i reportage, le interviste,
le amiche aristocratiche, gli
amici snob, l'armi e gli amori,
i fan a caccia d'autografi. Masneri racconta bene, felice
d'essere lì, l'Arbasino «privato» (quel poco di privatezza,
azzardo, che A. era disposto a
condividere).