Architetto Mario
Cucinella, perché vorrebbe
abolire la parola «periferia»?
«Ecco, adesso
l'amico Renzo Piano mi toglierà il saluto. No, scherzo,
in fondo arriviamo alle stesse
conclusioni: che senso ha oggi parlare di centro e periferia
quando si può usare l'espressione "città moderna"? Che è
fluida, collegata, osmotica».
Non dappertutto.
«L'Italia non ha grandi metropoli e il termine città metropolitana indica delle realtà
politiche, non effettive. Prendiamo un'area grande come
quella di Torino. Secondo lei
un abitante di un comune
grande e dotato di identità
forte si sentirà torinese?».
Lei insiste sull'atto del rigenerare più che sul costruire. Il progetto per l'Università Roma 3 è questo?
«Sì, perché alla base c'è
l'idea di una grande piazza
che unisca zone diverse. Nel
quartiere Ostiense (dove domani avrà luogo la terza e ultima tappa dei Bello dell'Italia 2021, ndr.) convivono realtà differenti, mi piaceva l'idea
di un approdo comune nel
nome di studio e ricerca».
Non si parla un po' troppo
spesso di rigenerazione?
«Si parla troppo, punto. Sa
che cosa mi fa arrabbiare?».
Che cosa?
«Dovremmo approfittare
di questo periodo per coltivare le domande invece di continuare a dare risposte».
Gli architetti parlano
troppo?
«Facciamo un esempio:
quello del cambiamento climatico è un tema gigantesco,
i cui contorni non sono ancora chiari. E tempo di definire
bene le domande, per me».
Oggi si discute tanto della
«città da 15 minuti».
«Riflessione ottima, che
viene da Parigi. In sintesi: una
città in cui tutti i servizi siano
a disposizione dei cittadini
ad una distanza massima di
15 minuti in bicicletta o a piedi. Però io mi domando: per
come è organizzato il nostro
tempo, i 15 minuti basteranno? In altre parole: studiamo
bene le abitudini, vediamo di
che cosa abbiamo realmente
bisogno, mettiamo da parte
gli slogan. Guardiamo, per
esempio, ai tanti centri storici dove le case hanno prezzi
impossibili e che stanno diventando delle isole chiuse. A
Vienna, per fare un esempio
virtuoso, ci sono alloggi pubblici anche nelle zone più
economicamente proibitive.
Io sono convinto che in Italia
la presenza di culture diverse
nello stesso quartiere in tante
città abbia frenato i conflitti
sociali».
Un'altra cosa che va di
moda è iniziare le riflessioni con la frase «la pandemia
ci ha insegnato...».
«Accetto la provocazione e
dico che l'esperienza del confinamento ha fatto luce sul
concetto di vicinato. Il vicino
di casa non può e non deve
essere solo quello che appartiene alla tua stessa classe sociale o che ha le tue abitudini.
Io vivo a Bologna e porto
l'esempio della strada sociale,
un esperimento nato in una
delle vie del centro dove tutti
si danno una mano a vicenda.
Tu non hai tempo di badare
alla nonna? Ci penso io, magari la prossima volta tu vai a
farmi la spesa. Il vicinato è
una forza attiva, è un antidoto
allo sradicamento».
Dopo anni di euforia al
pensiero di abitare tutti in
una «città-stato» pensiamo solo a Milano — si riscopre un'idea diversa?
«Perché non la chiamiamo
"città dilatata"? Un esempio
concreto: Berlino. Non ha
tanti grattacieli, ha tantissimo verde e quei parchi oggi
uniscono quelli che un tempo erano il centro e la periferia. Il verde, le aree rigenerate, i quartieri che rinascono, i
musei decentrati: tutto questo è la città moderna. Però
anche a Roma io vedo un'impronta simile. Io penso che la
città del domani sia piena di
reti, di connessioni».
Architetto, non cederà
anche lei all'idea romantica
della casetta-rifugio in
campagna?
«Ma no. Però abbiamo toccato con mano quanto siano
pericolosi gli ospedali grandi
e accentratori. Perché non cominciamo a pensare a soluzioni diverse perla sanità?»
Per non dire delle scuole.
«Qui vorrei parlare delle
materie umanistiche. Ho come la sensazione che la politica incentivi il sogno tecnologico della startup senza ricordare ai nostri ragazzi che il
98 per cento di questi esperimenti è destinato al fallimento. E, al tempo stesso, si tolgono dai programmi materie
come musica e storia dell'arte. Le materie umanistiche
sono le uniche in cui una persona si confronta con se stessa. Quelle che sviluppano spirito critico. Guarda un po'».
Nel suo libro Il futuro è
un viaggio nel passato
(Quodlibet) lei esamina casi
architettonici nel mondo.
«Mi sono chiesto: ma perché una volta l'architettura
era diversa da una parte all'altra del globo? Per esempio
c'erano i palazzi al contrario,
nell'India dei Maharaja: scavati nella terra, con un sistema di refrigerazione naturale. Quegli architetti erano così in sintonia con il clima che
non avevano bisogno di tecnologie così sofisticate per
creare cose fatte bene».
E oggi invece l'architettura è uguale dappertutto?
«Diciamo che dipende
molto di più dai sistemi economici. Ahimè»