Agli studiosi di storia e
al più vasto pubblico
dei lettori Adriano
Prosperi è noto per
aver studiato i modi
in cui l'azione congiunta di inquisitori,
confessori e missionari - i Tribunali della coscienza
del suo libro meritatamente
più conosciuto - ha permesso
alla Chiesa della Controriforma di imporsi come il potere
più solido e duraturo nella storia dell'Italia moderna. Per scrivere un libro come quello, però, serviva uno studioso che
avesse imparato a conoscere bene anche il nemico dei tribunali inquisitoriali: quella peste
ereticale - così veniva chiamata- che potenzialmente si annidava nella coscienza di ognuno.
Le Eresie pubblicate ora da
Quodlibet (pp. 784, € 32,00)
esplorano proprio questo lato
della produzione di Prosperi,
che prima era accessibile in sedi per soli addetti ai lavori o leggendo un altro libro ereticale
dell'autore, quello dedicato al
profeta e visionario Giorgio Siculo. Ora può invece ambire a
una circolazione più ampia una
serie di ricerche che copre una
carriera che dura da oltre cinquant'anni - il saggio più antico qui raccolto è del 1970 e molti sono gli inediti, usciti di fresco da uno scrittoio inesauribile. Prima ancora di essere uno
studioso dei «cattivi» - è però anche grazie a lui che sappiamo
che gli inquisitori non erano
sempre dei fanatici ma a volte
giudici più scrupolosi della loro
controparte laica - Prosperi è
stato dunque uno studioso dei
«buoni», o almeno di coloro con
cui siamo - o eravamo, prima
che le reazioni alla pandemia rimescolassero le carte - istintivamente portati a identificarci:
gli eretici, insomma, quelli che
hanno avuto il coraggio di fare
scelte non conformi a quelle
della maggioranza.
Per chi studia la storia religiosa del Cinquecento, questi
greatest hits sono un ritorno ai
fondamentali: quasi ottocento
pagine in cui sono distillati lavori che chi si occupa di questi
temi deve aver letto. Chi invece
non ha fatto della ricostruzione della storia religiosa del Cinquecento italiano un mestiere,
ma guarda a essa come un problema aperto che segna ancora il nostro presente, troverà in
questo libro una geografia e
storia della religione italiana,
dove i centri maggiori e più noti del dissenso religioso (la Firenze di Savonarola e del monaco Teodoro, la Ferrara di Arquato e Brasavola, la Siena dei Sozzini e via dicendo) vengono
messi a contatto con realtà meno familiari: Reggio Emilia,
Faenza, la Sardegna e naturalmente la Sicilia, da dove partì
la parabola di Giorgio Rioli detto appunto il Siculo.
Diverse Italie, dunque, e per
di più tutte a contatto con il
mondo. Sì, perché decenni prima che la storia globale diventasse di moda, Prosperi ha saputo non solo seguire le traiettorie
della diaspora internazionale
degli esuli italiani per causa di
religione (e di questo filone, più
debitore nei confronti del suo
maestro Cantimori, il libro offre vari assaggi) ma anche vedere quanto l'esperienza, quella sì
davvero globale, dei missionari
della Controriforma venisse
poi riutilizzata in patria. Il problema era quello di insegnare e
correggere gli errori (docere etdedocere si diceva) all'interno di
quelle che venivano chiamate
«le nostre Indie», cioè tutti quei
territori, isolati perché montuosi e lontani dalle grandi vie dicomunicazione, che avevano bisogno di essere ricattolicizzati,
laddove non evangelizzati ex novo. Nona caso, dunque, il libro si
apre con un'introduzione dedicata a La religione italiana e il mondo, dove largo spazio viene dedicato a opere come le Relazioni universali di Giovanni Botero, «grandioso repertorio di antropogeografia», ricchissimo di informazioni non solo sulla religione,
ma anche sulla configurazione
fisica, demografica, economica, militare e politica di tutti gli
stati del mondo conosciuto.
Il libro non presenta scansioni al suo interno, che ne avrebbero in qualche modo isterilito
la ricchezza. Ciò non toglie tuttavia che alcune linee di fondo
si colgano con precisione: i rapporti tra arte ed eresia, ad esempio, come nei saggi su Lotto, Vittoria Colonna e l'incisore calvinista modenese Lorenzo Penni;
la riflessione storiografica
sull'eresia e la Riforma nell'Italia del Rinascimento (non solo
Cantimori, ma anche Bainton,
Garin, Ferdinand Meyer e Ranke); soprattutto, la lunga fedeltà a Machiavelli, il più citato nel
libro, dopo Lutero e Savonarola. Un Machiavelli che della Riforma non parlò mai ma che,
negli stessi anni in cui essa
prendeva piede, scriveva «come i papi, prima con le censure, di poi con quelle e con le armi insieme, mescolate con le
indulgenzie, erano terribili e
venerandi; e come, per avere
usato male l'uno e l'altro, l'uno hanno al tutto perduto,
dell'altro stanno a discrezione
d'altri». Vi si legge, secondo
Prosperi, «una allusione rapida ma carica di una minacciosa previsione che mostra quali
speranze Machiavelli riponesse nel successo del movimento
della Riforma e in quel Lutero
che non nominò mai nei suoi
scritti». Sono pagine particolarmente puntuali, ora che la ricerca appare invece riorientarsi su un Machiavelli polemista
anti-luterano al servizio di papa Clemente VII. Ma se la primissima ricezione di Machiavelli in Italia e nella penisola
iberica fu legata proprio alla
sua polemica contro la debolezza militare favorita dal cristianesimo, come documenta un altro saggio apripista qui riproposto (La religione, il potere, le elite),
forse qualcosa vorrà pur dire.
Machiavelli appare in filigrana anche dietro un'altra figura
che fa spesso capolino in questo
libro, cioè Pietro Paolo Boscoli,
il capo della congiura contro i
Medici in cui venne implicato
anche il cancelliere fiorentino. Rinchiuso nel carcere che
condivideva col futuro autore
del Principe, Boscoli si confessò
in presenza dell'umanista Luca della Robbia, che prese nota
dei suoi ultimi pensieri prima
di essere giustiziato. Quello di
della Robbia è un testo che può
essere paragonato solo al dialogo tra la morte e Antonius
Block, il cavaliere del settimo
sigillo di Bergman: «Io vorrei
che l'umanità di Cristo mi s'offerissi, e vorrèlo comprendere
come se uscissi d'un bosco, e facessimisi incontro» — si legge
nel saggio su L'umanità di Cristo
tra devozione ed eresia. O ancora:
«Luca, cavatemi della testa Bruto, acciò ch'io faccia questo
passo interamente da cristiano» (parole citate nel saggio,
inedito, sulla storia del crimen
laesae maiestatis). Come Burckhardt e Cantimori prima di
lui, anche Prosperi interpreta la
menzione della figura di Bruto
come contrasto dei valori cristiani con l'etica antica del tirannicidio. Un nano sulle spalle di
questi tre giganti potrebbe osservare che il problema qui non
sia solo il tirannicidio, che qualche spazio di accettazione pure
lo aveva, ma soprattutto il gesto
che Bruto fece dopo aver ucciso
il tiranno Cesare, cioè togliere
la vita anche a se stesso. In altre
parole, quel «passo interamente da cristiano» che Bo scoli vuole compiere è quello di non farsi
tentare dalla disperazione, superando la tentazione di perdere con la propria vita anche la
propria anima, come aveva fatto Bruto dopo la sconfitta.
Ed è ancora intorno a Machiavelli che si dipana anche il
primo, bellissimo saggio del
volume: Lo Stato e i paternostri. E
sempre l'autore delle Istorie fiorentine infatti a trasmetterci, assieme a tante altre fonti, la battuta di Cosimo il Vecchio secondo cui «gli stati non si tengono co' paternostri in mano». Di
nuovo — e sia detto come segno
di profonda gratitudine per come il libro mette in moto i pensieri di chi lo legge — il riferimento non sembra essere solo
all'«invocazione evangelica
del padre celeste», ma anche a
un altro significato del termine paternostro, cioè il rosario
(difficilmente altrimenti si capirebbe il senso dello scherzo,
almeno per come viene riferito da Machiavelli). Un dettaglio minimo, che non sposta di
un centimetro le preziose riflessioni su religione e politica
nella storia d'Italia che Prosperi affida a quel capitolo (e a tutto il libro), ma che suona come
un monito, ora che chi vuole tenere lo stato in una mano ha ricominciato a brandire il rosario nell'altra.