Recensioni / Recensione a Marco Assennato, Progetto e metropoli. Saggio su operaismo e architettura

Il progetto e la metropoli, vale a dire l’«agire intenzionato in una prospettiva storica concreta» (p. 10) e lo «spazio del conflitto contemporaneo» (p. 84): sono queste le lenti di rifrazione che guidano il lavoro di Marco Assennato. Proprio attraverso questi due concetti viene infatti esaminato il rapporto tra operaismo e architettura, nel contesto italiano degli anni Sessanta e Settanta. Già il titolo del volume fornisce dunque una puntuale definizione dell’area oggetto di investigazione; eppure non basta a rendere conto della profondità delle analisi elaborate. Costituisce, piuttosto, il punto d’avvio di un’accurata esplorazione che si caratterizza per la ricchezza di interpretazioni e argomentazioni – le quali sono attraversate dalle intuizioni di autori quali Benjamin, Marx, Lukács, Franco Fortini, Toni Negri, Massimo Cacciari, Mario Tronti, Alberto Magnaghi, Luciano Ferrari Bravo, Pier Vittorio Aureli – e che, a sua volta, risulta marcata da una raffinata, a tratti persino irriverente, radicalità. È infatti proprio attraverso i colpi e le sferzate di una critica che conosce e «riconosce la grandezza» (p. 99) di ciò di cui tratta che viene restituita – senza appello – l’originalità di questo volume.
A essere privilegiate sono le rotture e le differenze – in primis quella tra l’operaismo e il movimento di neoavanguardia dei Radicals (in particolare Archizoom e Superstudio) – piuttosto che le continuità e le corrispondenze, nell’ambito di una ricerca volta ad assumere tratti «produttivi e materiali, più che artistici o culturali» (p. 84). È dunque proprio all’interno di questo spettro metodologico che si inseriscono le indagini sull’articolazione tra arte e tecnica e la presa di distanza rispetto al carattere reazionario di qualsiasi nostalgia moralistica. A questo proposito, l’argomentazione di Assennato risulta inflessibile e tagliente: si tratta di abbandonare le false prospettive riformiste e regressive, vale a dire quelle analisi architettoniche e urbanistiche che nel prospettare forme di vita alternative – basate sui miti della partecipazione civica, delle comunità locali immaginate come isole felici, del microcredito, dello scambio di bitcoin… – non riescono nell’impresa di trasformare il reale e incidere su di esso. Al contrario, risolvono «il soggetto di classe in un insieme anonimo di individui» (p. 87) e sono quindi funzionali allo sviluppo capitalistico e cioè assorbibili nei circuiti di valorizzazione e di governo della metropoli. In linea più generale, e a monte di tali riflessioni, vi è infatti la necessità di allontanarsi da visioni atte a proclamare l’autonomia – sia essa del politico (di matrice trontiana), dell’architettura dal reale, del ruolo dell’intellettuale, dell’arte, del progetto, dell’operaio-massa asserragliato nel Karl Marx Hof della Rote Wien austromarxista e in questo modo disgiunto «dal processo economico complessivo della metropoli» (p. 15).
Al cuore di queste riflessioni si colloca l’importanza di Manfredo Tafuri (non a caso, infatti, al titolo di una delle sue opere principali – Progetto e utopia – si richiama anche Progetto e metropoli), il cui lavoro e la cui figura intellettuale risultano inscindibilmente legati all’operaismo italiano, al punto che, per leggere il primo – afferma Assennato – «bisogna conoscere il dibattito operaista» (p. 56). Anche in questo caso, l’argomentazione non ammette imprecisioni. A partire dall’esame di alcuni importanti testi della storia dell’architettura e del pensiero politico, nonché dall’analisi di articoli di riviste quali «Quaderni rossi», «Classe operaia» ma, soprattutto, «Contropiano», viene operata un’attenta ricostruzione del contesto e dei legami intellettuali che marcano l’attività teorico-politica di Tafuri.
La centralità dello storico dell’Architettura dello IUAV di Venezia è segnata dalla sua critica all’ideologia – concetto mutuato dal Tronti di Operai e Capitale. Ideologia del lavoro intellettuale, che – indica Assennato – nella prospettiva operaista, «è completamente sussunto nel ciclo capitalistico» (p. 12); e ideologia architettonica o, meglio, l’architettura come «attività ideologica in sé» (p. 21), la quale mira a tradurre in pratica l’utopia, assumendo in questo modo un ruolo proiettivo. Per Tafuri si tratta invece – e a questa necessità fa eco il lavoro di Assennato – di «ripensare la struttura epistemologica del progetto» (p. 28) architettonico come «strumento di intervento» (p. 13) che si impone all’interno dello spazio d’azione dello sviluppo capitalistico. Il progetto deve infatti rispondere alla realtà produttiva – vale a dire alla metropoli, intesa come spazio di relazione collettivo – senza abbandonarsi a un’utopica e inoffensiva speranza di costruzione irenica della macchina urbana o a nostalgie atte a ricalcare modelli, anch’essi utopici, già proposti e cavalcati dalle avanguardie storiche. Detto altrimenti: non si tratta di imporre un ordine logico sul territorio, ma di intendere il «progetto architettonico come parte del ciclo economico urbano» (p. 70), capace di scontrarsi coi modelli di sviluppo in atto e rompere l’ordine capitalistico di produzione.
È in questo senso dunque che la celebre affermazione tafuriana secondo la quale «non si dà alcuna architettura di classe, ma solo una critica di classe all’architettura» (p. 23) non deve essere (banalmente) interpretata come distruzione apocalittica della disciplina architettonica, ritenuta impraticabile in una società a capitalismo avanzato. Al contrario, è un invito all’architettura – intesa non tanto o non più come lavoro intellettuale dotato di un’aura di sacralità, ma come vero e proprio lavoro produttivo che ha subito una precisa riqualificazione – ad assumere una nuova funzione: agire all’interno dei cicli di produzione e riproduzione della macchina capitalistica, assumendone la disarmonia, gli scarti, gli sprechi, le crisi continue e mai congiunturali, il carattere contraddittorio e le infinite possibilità di collisione. O ancora, essa deve agire non fuori – programmando «usi alternativi, consumi contro la produzione, fuga nei microcosmi architettonici, comunitarismo hippie» (p. 53) – ma dentro lo spazio metropolitano, perpetuamente sottoposto al tentativo capitalistico di estrazione della ricchezza prodotta socialmente. Dentro e contro dunque, «a partire da un punto di vista situato e parziale» (p. 68): è questo il modo per incidere sulla tendenza dell’organizzazione urbana.
In conclusione, si tratta di riconoscere che quello di Assennato è un testo importante poiché riesce nella non semplice impresa di mostrare che «teoria e pratica, filosofia e politica non possono e non devono mai separarsi» (p. 80) e che le analisi sui processi architettonici e sullo spazio urbano non possono che essere politiche. Non possono cioè – pena disconoscere «la realtà della situazione di classe» (p. 16) – negare i conflitti e la presenza di soggettività antagoniste che attraversano la metropoli. È infatti proprio la metropoli – la quale nella sua forma contemporanea non presenta né confini né misure, e può dunque essere intesa come Bigness nel senso definito da Rem Koolhaas – a essere investita dalle politiche neoliberali e dunque segnata da rotture, separazioni e da uno sviluppo contraddittorio. Essa è «il risultato – scrive Assennato – di un doppio movimento continuo di dissoluzione e reinvenzione che mostra lo spazio urbano come enigma della moltitudine» (p. 81). A nulla valgono quindi le fughe nostalgiche all’indietro o utopiche in avanti, il nodo è quello di non perdere la dimensione produttiva della metropoli per non perderne la dimensione politica, vale a dire per attuare «una politica di trasformazione dello stato di cose presenti» (p. 95).