Sostenuta a Vienna nel 1910, relatore l'illustre linguista Wilhelm
Meyer-Lübke, la testi di laurea di
Leo Spitzer, allora ventitreenne e
destinato a diventare il maggiore
esponente della critica stilistica novecentesca, sulla Wortbildung, ovvero i neologismi, viene oggi tradotta da Quodlibet con il titolo Rabelais. La
formazione di parole come strumento stilistico
(traduttrice Lucia Assenzi, prefatore Davide Colussi: pp. 368, € 24,00).
E un volume fondamentale per chi si interessa alle origini della critica stilistica; e
prezioso per chiunque sia affascinato dalla cultura viennese d'inizio Novecento.
Non è tuttavia importante per quel che insegna su Rabelais, o sul Balzac rabelaisiano dei Contes drolatiques, cui è dedicata una
corposa appendice. In ossequio al rigore
positivista del maestro, il giovanissimo
Spitzer cataloga e annota con diligenza i fenomeni lessicali; e i suoi commenti, come
riconosce Colussi, hanno «natura spesso
prettamente storico-linguistica».
Un profluvio di note
Non mancano le pagine divertite e divertenti, in cui si intrecciano semantica e etimologia, italiano e francese, per dar conto
dei salaci doppi sensi tanto cari a Rabelais
(per esempio nel caso della dotta disquisizione su papefigue i pappafico). Resta comunque alquanto paradossale che il lettore italiano non trovi in italiano, a fronte di
questo lavoro acerbo, i grandi saggi della
maturità sulla sordina classica in Racine,
sull'enumerazione caotica nella poesia
moderna, su Proust e sullo stesso Rabelais
(per non fare che pochi esempi).
Va un po' meglio con lo Spitzer studioso
di semantica storica (è disponibile per il Mulino il libro su L'armonia del mondo) e dell'italiano popolare (fra le altre cose, il Saggiatore ha meritoriamente tradotto due anni fa
Perifrasi del concetto di fame. La lingua segreta
dei prigionieri italiani nella Grande Guerra).
Nella tesi di Spitzer si trova in embrione,
ma appena accennata, l'idea di un sostanziale antirealismo dell'opera maggiore di
Rabelais («ogni neoformazione porta i caratteri dell'irreale»), in ragione di una presunta incompatibilità di comico e realistico su
cui il critico tornerà negli anni successivi.
Invece è già pienamente sviluppato, quasi a
voler forzare i limiti della mera schedatura
linguistica, quell'esuberante apparato di
note, che sarà tipico di molti scritti successivi: Spitzer relega non di rado le cose più importanti a piè pagina, un po' per amore snobistico del margine, ma soprattutto per intima necessità di un ragionamento che, se
nasce quasi sempre da una folgorante intuizione, poi procede per approssimazioni, precisazioni, distinguo, e anche spiazzanti palinodie. Nelle note e nelle Aggiunte
finali del Rabelais, lascia esterrefatti l'ampiezza delle letture, soprattutto francesi,
del laureando: appassionato non solo di
Balzac e di altri autori canonici, ma anche
di scrittori ottocenteschi oggi considerati
minori, come François Coppée o Courteline; autori diversissimi fra loro, ma spesso irriverenti, irregolari, popolari, insomma inclini a un uso idiosincratico della lingua (un
uso che mette a dura prova la traduttrice:
che se la cava bene con il tedesco, mentre
nelle citazioni dal francese le sfugge qualche strafalcione). Attraversa tutto il libro una riflessione non banale sul comico, che prende le mosse da
Bergson e soprattutto da Freud, e risponde
a una mai rinnegata passione per il mimo,
la farsa, la commedia, perfino il vaudeville,
generi popolarissimi nel lungo Ottocento
(che non è stato solo un «secolo serio»).
Spitzer studia Rabelais avendo in mente Johann Nestroy - un attore e commediografo viennese d'inizio Ottocento - o
la pochade dei teatri popolari parigini di
fine secolo. Questa predilezione, felicemente antistoricista, per il corto circuito
fra classico e contemporaneo, e anche
fra arte e vita (la Wortbildung di Rabelais
«non è qualcosa di letterariamente morto»), tornerà spesso nei migliori saggi della
maturità; ma già nella tesi, sulla diligente
tassonomia cara a Meyer-Lübke, non di rado prevale il piacere digressivo dell'acuta
notazione puntuale. E insomma eccessiva
la ferocia autocritica con
cui Spitzer, nel saggio retrospettivo del 1960 in
cui traccia lo Sviluppo di un metodo, liquida l'antica Dissertation: «Catalogai
pedantescamente i neologismi di Rabelais
secondo insipide categorie letterarie quali
la farsa, il burlesco, il grottesco». Certo,
l'autore del Rabelais non sa ancora individuare per via di scarto stilistico quello che
crocianamente definirà «l'etimo spirituale» del capolavoro; e tuttavia, che il giovane Spitzer sarebbe diventato uno dei più fini e acuti lettori del Novecento, fra le righe
di questa tesi già lo si poteva intuire.
La parte più interessante del libro non è
però quella analitica, bensì l'ampia premessa teorica, su cui opportunamente si sofferma Colussi nella Prefazione, sottolineando
in particolare il debito, precocissimo e
tutt'altro che scontato, con la psicoanalisi.
In realtà, nella tesi non c'è traccia dei più
vulgati saggi di Freud sulla letteratura: certo, all'altezza del 1910 alcuni dei più celebri
(su Michelangelo, Goethe, Dostoevskij) erano di là da venire; ma Spitzer conosce sicuramente l'ampio scritto sulla Gradiva di Wilhelm Jensen; e giustamente lo ignora. Mentre cita con inusitata frequenza Il motto di spirito: non per estrapolarne i principi di una
teoria freudiana della letteratura, come farà Francesco Orlando più di mezzo secolo
più tardi; ma per mutuare - anche per l'evidente contiguità di argomento - una eziologia degli artifici formali: rime interne, figure etimologiche, neologismi farseschi, insomma quei giochi del significante che hanno una funzione decisiva nello scatenare la
comicità rabelaisiana, consentono, come il
motto di spirito, un risparmio di energia psichica; anche se poi il critico ci tiene a sottolineare l'intenzionalità dei doppi sensi di
Gargantua: consapevolmente orchestrati,
non prodotti dall'inconscio dello scrittore.
Da Freud a Croce
È vero che Spitzer non esiterà a definire
senz'altro «freudiana» tutta la sua produzione di critico letterario anteriore agli anni
Trenta; ma fin dalla tesi, altri influssi culturali integrano quello della psicoanalisi: anzitutto, come è ovvio, la linguistica storica,
con il suo rigore classificatorio a volte irriso, ma mai dimenticato nel concreto del lavoro sui testi; e poi l'estetica idealista, Benedetto Croce mediato da Karl Vossler. L'elenco delle auctoritates discusse dal laureando,
senz'ombra di reverenziale condiscendenza, è lungo: aggiungo solo lo psicologo Wilhelm Wundt e il linguista Charles Bally.
Ecco, la cosa più straordinaria di questa
tesi è che un ventitreenne, per definire
l'oggetto del suo lavoro, abbia proposto
una precaria sintesi di istanze culturali tanto lontane, ma tutte destinate a avere un
peso nell'elaborazione del suo metodo maturo - un metodo, peraltro, sempre in fieri,
sempre adattato all'oggetto dell'analisi e
aperto all'intuizione idiosincratica, mai
definito in rigidi protocolli. E naturalmente non è un caso che questa sintesi, affascinante quanto embrionale, sia avvenuta a
Vienna nel 1910.