Recensioni / «Disegni letterari» Nei cantiere di Leopardi

Per questo autunno la collana dei «Saggi» di Quodlibet ci riserva una bella sorpresa: Disegni letterari di Giacomo Leopardi (277 pagine, 20 euro): la parola «disegni» sta, in questo caso, per progetti, intenzioni. Si tratta della raccolta, costruita da Franco D'Intino, già autore di importanti studi leopardiani (qui coadiuvato da Lucia Abate e Davide Pettinicchio), di quei piani di lavoro che lo scrittore non riuscì a realizzare per diversi motivi, primo tra tutti il tempo, troppo poco per chi di idee ne aveva così tante.
Leopardi muore nel 1837, a 39 anni e, se la mole e la qualità di quello che ha scritto risulta impressionante, quello che non ha scritto sorprende ugualmente, per quantità, qualità e fantasia: consapevole del suo talento bifido, della sua grande creatività e della sua enorme erudizione, voleva scrivere di tutto (e poi ampliare, ritrattare, ricalibrare) e non aveva remore a credere di poterci riuscire. Ci sorprendiamo così ad andare avanti e indietro per le tavole del testo, cercando (e trovando) in questi piani di lavoro le tracce delle opere che conosciamo. I richiami sono tanti: ai Canti ma soprattutto nelle Operette morali, la sua vera opera-mondo; come ogni scrittore, Leopardi ha argomenti che lo ossessionano, uno su tutti la letteratura italiana a lui coeva, di cui annuncia varie volte di voler scrivere ora un compendio ora «un saggio [...] da contrapporsi a quello di Hobhouse» (dietro quest'ultimo si celava, in veste di ghost writer, Ugo Foscolo, e Leopardi lo sapeva, e non aveva paura di un confronto). Disegni letterari ci fa vedere come il corpus dei progetti crescesse di pari passo con l'opera vera e propria, in un'osmosi di terni, idee, possibilità; impossibilità, anche. E affascinante scoprire che Leopardi voleva scrivere un romanzo, prendendo spunto dalla vicenda tragica di una ragazza di Recanati, costretta a farsi suora dai genitori. Dopo anni di sofferenze e tentativi di fuga si era buttata giù dalla finestra del convento, compagna di dolore della Gertrude di Manzoni ma anche dello stesso Leopardi, costretto a Recanati fino a quando non trova il modo di fuggire.
E avvincente scoprire che Leopardi aveva avviato una riflessione sul comico e sulle ragioni per cui in Italia era considerato ormai un genere minore: ragioni linguistiche, secondo lui, «giacché ella non è povera d'intreccio d'invenzione di condotta ec. e in tutte queste parti ella sta bene, ma le manca affatto il particolare cioè lo stile e le bellezze parziali della satira fina».
Non meno bello (e questo vale per i piani di lavoro più articolati, concepiti come veri e propri abstract, per dirla con una parola di oggi) è trovare echi di poesia, lampi di profondità, definizioni fulminanti nelle pieghe di una scrittura che sa essere cristallina anche quando si spende in un abbozzo: Leopardi ha in testa la sua personale musica, la sua armonia, sempre. Soprattutto, ciò che colpisce di Disegni letterari, è la possibilità di ritrovare tra le pagine un carattere, una personalità, una mente iperattiva e vitale, che maneggia con disinvoltura i classici e i moderni, la poesia e la prosa (questa con qualche intoppo in più, quando cerca di uscire dalla trattazione e dalla forma breve).
Entrando più nello specifico del volume, Disegni letterari si presenta con una veste luminosa ed eleganA te: nome dell'autore in rosso, casa editrice e titolo in nero, in alto al centro, e tutto il resto in bianco, puro stile Quodlibet, che si sposa bene con Leopardi, con la sua leggerezza da classico, per parafrasare idee di Italo Calvino, uno dei massimi ammiratori della sua assenza di gravità anche nel maneggiare il dolore e la disperazione. L'unica pecca di questa raccolta sta forse nella scarsa fruibilità degli apparati critici da parte di un pubblico di non specialisti, e nella scelta di spiegare il contenuto dei vari disegni dopo i testi, che può scoraggiare il common reader, quello che Leopardi lo legge da sempre, spaventato e attratto dal suo peso specifico; e che continua a leggerlo, nonostante la riduttiva immagine di pessimista menagramo veicolata da certo umorismo scadente (e, peggio, da certi professori sfaticati). Il punto è forse questo: occasioni del genere andrebbero sfruttate ancora di più, oltre che per fornire nuovi strumenti di lavoro agli studiosi, per rinfrescare immagini bolse di scrittori vivissimi, e in questo senso l'idea dei Disegni letterari appare perfetta allo scopo.
Non è infatti la prima volta che i disegni vengono raccolti (come ci spiegano gli autori nell'introduzione, sono stati più volte accorpati a altri testi di Leopardi, o inseriti in varie edizioni delle Opere complete). Questa però è la prima volta che vengono valorizzati in un progetto che gli dia un criterio cronologico, li isoli dal resto dell'opera, e li inquadri in un intelligente saggio critico. Tutto questo ci apre le porte del tumultuoso cantiere leopardiano, da quando era un giovane incontenibile, a quando era adulto e acciaccato, ma ugualmente proiettato verso un futuro di opere importanti.
Tutto questo avrebbe potuto addirittura spalancare quelle porte, con un po' di comunicativa in più da parte dei curatori.
Sotto alcuni aspetti, Disegni letterari si inserisce infatti in un continuum di pubblicazioni recenti che hanno riacceso un acuto interesse per Leopardi: il vol. I del Canti curati da un grande studioso morto proprio in questi giorni, Luigi Blasucci, che rende conto della modernità di un pensiero così mobile da risultare quasi contraddittorio; la bella trilogia di Gilberto Lonardi, che ha per ultima tappa Il mappamondo di Giacomo. Leopardi, l'antico, un filosofo indiano, il sublime del qualunque (Marsilio 2020), che già dal titolo ci mostra uno scrittore vorace di tutto; Il metodo di Leopardi di Paola Italia (Carocci 2016), altro studio che restituisce dinamismo a uno scrittore troppo spesso ingabbiato nella stanca immagine delle «sudate carte». La fatica c'era, ma c'erano anche entusiasmo, ironia, curiosità. La stessa immagine di grande forza, di una luce costantemente accesa, che del resto è arrivata anche dallo splendido romanzo breve Io venia pien d'angoscia a rimirarti di Michele Mari, che già nel 1990 creava una lingua antica e nuovissima per raccontare del Leopardi adolescente, mattatore tra i più miti fratelli Giovanni e Paolina, impegnato sia a far girare trottole di legno sia a studiare gli astri.
Per poi ritirarsi in camera sua, allora sì malinconico, a pensare ai casi suoi, e poi a inventare, spiato da una porta socchiusa da Giovanni (sua la voce narrante), che si interroga sul mistero del genio. La stessa immagine che si ritrova anche nel Giovane favoloso di Mario Martone (2014): un film che, pur non dimenticando la sofferenza e la tragedia del non riuscire a vivere, ha messo sottilmente in crisi il ritratto dell'intellettuale angoscioso e triste. Certo, qui il discorso è diverso, perché si tratta di un libro di Leopardi e non di uno studio critico (o di un romanzo, o di un film) su Leopardi, quindi la compostezza è d'obbligo; trattandosi poi di testi così particolari, progetti, ma anche, nel caso dei testi più lunghi, modernissimi prototipi di forme brevi e di densi non finiti novecenteschi (Sbarbaro, Delfini), il puntiglio filologico e le informazioni su provenienza e legami tematici e stilistici con altri scritti sono necessari. Sarebbe stata però forse utile anche una narrazione leggera, un po' di racconto in più per cucire fra loro (e dentro l'esperienza di Leopardi) i singoli disegni o gruppi di disegni. Una narrazione funzionale (in un libro come questo, che si muove tra filologia e testo d'autore) non a incastrare Leopardi in una nuova immagine statica o tendenziosa, ma piuttosto a presentarlo nella sua identità vera a chi continua ad avvicinarsi a lui con ammirazione, ma anche, spesso, con un bagaglio ingombrante di idées reçues. E che, con qualche accorgimento, può essere introdotto anche a quelle che Cesare Garboli ha definito una volta «le gioie della filologia».