Recensioni / Per Koolhaas la polis non esiste più. Ora serve un’«urbanistica light»

Nel monumentale S, M, L, XL (1995, con Bruce Mau) Rem Koolhaas aveva parlato della generic city. E la metropoli liberata dalla «camicia di forza» della coerenza progettuale, capace di misurarsi con gli imprevisti della società, della politica, dell'economia, priva di storia, in grado di espandersi a oltranza, di autodistruggersi e di rinnovarsi, come uno studio di Hollywood, in grado di «produrre una nuova identità ogni lunedì mattina». Poi, c'è la «(non più) città», cui Koolhaas dedica il provocatorio Testi sulla (non più) città (a cura di Manuel Orazi, traduzione di Fiorenza Conte, Quodlibet, pp. 230, €18).
Questi testi, editi tra il 1988 e il 2014, disegnano un discorso che oscilla tra due registri: quello visivo e quello profetico. Da un lato, Koolhaas si ispira alle Immagini di città di Walter Benjamin, consegnandoci ritratti urbani di Atlanta e Singapore, di Dubai e Parigi, di Berlino e Tokyo, di Londra e New York. Dall'altro, evidenti gli echi delle avanguardie novecentesche. Sulle orme dei manifesti di Marinetti, Breton e Tzara, con gusto iconoclasta e visionario, Koolhaas invita a stare nel presente e a misurarsi senza pregiudizi con una mutazione in atto, oltre ogni idealismo. «Dimenticate Parigi», il suo invito, e andate a Las Vegas o Lagos, «città incredibilmente densa, ma strutturata».
L'idea di polis, ampliata e stravolta, naufraga nell'«irrilevanza». Per un verso, il mondo è diventato una megalopoli; per un altro, le megalopoli sono diventate un mondo. Dunque, ecco: le «(non più) città». Organismi costituiti da «frammenti di modernità», che decretano il fallimento della pianificazione. Corpi che si allargano e si comprimono. Vacilla il modello di irradiazione che portava dal centro alla periferia. Le differenze tra i quartieri si annullano. Si compie il trionfo di una varietas nella quale l'esterno è assorbito dall'interno, e viceversa. E ancora: le «(non più) città» destituiscono tutto ciò che istituiscono, non hanno niente al di fuori di esse. E non possono essere osservate da lontano, perché si sottraggono a ogni designazione ferma. Troppo imprevedibili ed elusive per poter essere affrontate con gli strumenti tradizionali. Di fronte a questa deflagrazione costruttiva e iconografica, Koolhaas rinuncia all'utopismo caro alle avanguardie. Non ci resta che abitare la crisi, afferma. E inventare un'Urbanistica Light. Una gaia scienza, che non imponga regole ma si liberi dei doveri; operi sul1'«inevitabile»; lanci il suo attacco al «nitore» dell'architettura, minandone i limiti. L'epilogo di Koolhaas è paradossale: «Dobbiamo immaginare altre i.00i concezioni di città, dobbiamo assumerci rischi folli». Nella consapevolezza, però, che falliremo. Ma «la certezza della sconfitta deve essere il nostro gas». Resta una domanda: davvero l'accettazione dell'esistente rappresenta l'unica strada possibile per l'urbanistica?

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