Recensioni / La recensione / 9 – I sommersi e i salvati, un libro «tedesco»

I sommersi e i salvati ha una data di nascita. È il 1959, quando Primo Levi, a un anno dall’uscita dell’edizione einaudiana di Se questo è un uomo, riceve le prime proposte di traduzione per il suo libro. Una di queste arriva dalle edizioni tedesche Fischer e Levi inizia uno scambio di lettere sia con l’editore sia con il traduttore, Heinz Riedt, una figura particolarmente interessante perché studioso di Goldoni e attivo durante la guerra nella Resistenza italiana. Da quell’incontro, prende l’avvio un dialogo epistolare che si allarga a molti lettori tedeschi della sua opera e che mette Levi «di fronte al desiderio irresistibile, assillante, certamente vitale, di essere letto dai cittadini di lingua tedesca, e di entrare in contatto con loro» (p. 9).
Nel corso di dieci anni, Levi discute per lettera molte delle questioni affrontate in Se questo è un uomo e nello stesso tempo si interroga intorno a nodi che quel tipo di platea può aiutare, se non a sciogliere, certo a problematizzare. Per questo Mengoni scrive che I sommersi e i salvati è «anche e prima di tutto un “libro tedesco”» (p. 10). L’interlocuzione con figure come Hermann Langbein, Wolfgang Beutin o Ferdinand Meyer costituisce, a un tempo, un obiettivo (raggiungere i suoi lettori ideali: giovani e tedeschi) e un punto di partenza, ossia un confronto su temi essenziali che andranno a nutrire la sua ultima opera.
Dalla fine degli anni sessanta, inizia un’altra fase decisiva nell’elaborazione del libro, quella che può essere definita una seconda “matrice” de I sommersi e i salvati. Tra il 1969 e il 1976, infatti, mentre lo scrittore si confronta costantemente con il pubblico italiano e in particolare con i giovani attraverso moltissimi incontri nelle scuole, il quadro politico assume caratteri sempre più preoccupanti. La minaccia del neofascismo, a partire dalla svolta di Piazza Fontana, si accompagna a un crescendo del negazionismo e i due elementi interrogano sempre di più Levi sia sulla possibilità e sulle modalità per trasmettere la conoscenza dell’esperienza concentrazionaria, sia sulle categorie e concetti (come la zona grigia, che proprio in questi anni viene abbozzata) necessari per raccontarla.
L’ultima fase è la composizione materiale del libro che copre un arco di sei anni, dal 1979 al 1986. Una fase in cui le esperienze umane e letterarie dei decenni precedenti trovano una sintesi in un complesso intreccio di saggistica e narrativa, in una stratificazione di interrogativi, letture, lettere che vanno a costituire, come lo chiama Mengoni, «un ottaedro» (con riferimento al numero dei capitoli de I sommersi e i salvati, ognuno dedicato a un tema specifico). È una figura che non va intesa come una rigida geometria, levigata e perfetta, chiusa in sé, bensì come un’opera solida dove però «le singole parti hanno in comune spigoli, non superfici» (p. 275). È una dimensione particolarmente visibile per quanto riguarda il tema del testimone e giustamente Mengoni scrive che il libro costituisce «innanzitutto una messa in discussione dell’inviolabilità della memoria del testimone, dell’infallibilità del suo punto di vista e dei suoi ricordi; più in generale, è un esercizio dubitativo sulla figura del testimone stesso, sui suoi errori, sui suoi limiti» (p. 271).
L’autrice dunque ricostruisce la biografia di un libro e lo fa soprattutto analizzando con acribia gli avantesti leviani, il loro stratificarsi e intrecciarsi, le continuità e gli scarti, le evoluzioni e le novità contenutistiche che a loro volta si accompagnano alla biografia dello scrittore. Mengoni utilizza molti fonti diverse – in un’operazione resa complessa, come è noto, dalla riservatezza con cui la famiglia di Primo Levi conserva l’archivio privato – e le fa dialogare con intelligenza e raffinatezza di scrittura, offrendo così un testo fondamentale per lo studio dello scrittore torinese, che peraltro la brillante e sapiente scrittura rende di assai piacevole lettura.