Recensioni / Le segnalazioni

Ne La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Thomas Kuhn scriveva che le più importanti scoperte, quelle che cambiano il modo in cui concepiamo il mondo, sono quasi sempre opera di persone o molto giovani o solo di recente interessatesi a un ramo della scienza che prima non conoscevano. Il motivo di questo fenomeno, proseguiva Kuhn, è che coloro non ancora adusi alle regole unanimemente accettate dalla comunità scientifica di riferimento sono gli unici in grado di pensare in modo creativo, e così risolvere problemi rimasti fino a quel momento irrisolti. Una delle cifre del lavoro critico prodotto da Franco Nasi negli ultimi anni – specie a partire dalla monografia Traduzioni estreme (Quodlibet, 2015) – consiste proprio nella continua pressione esercitata sul concetto di “regola” in relazione alla lingua, che è invece per Nasi entità viva, cangiante e giocosa (e, per converso, asservita al potere politico ogni qual volta questa viene irregimentata). In Tradurre l’errore, Nasi prosegue questa sua ricerca con un intento che è soprattutto pedagogico, cioè mostrare al lettore, con dovizia di esempi e commenti, che tradurre un testo è (prendendo in prestito la terminologia delle scienze sociali) un wicked problem: non un puzzle da risolvere, ma un gioco a esito indeterminato in virtù della sua mancanza di linearità e del fatto che qualsiasi fattore, compreso il trovare una soluzione, alimenta ulteriormente la complessità del problema stesso. Se qualsiasi fattore influenza un dato problema traduttivo, ne consegue che anche un errore può essere fecondo di senso. Nasi sposa questa tesi e invita i traduttori a prenderla in carico attraverso la propria creatività e il proprio senso critico. I cinque capitoli di Tradurre l’errore si muovono così tra giochi di parole, culturemi, indovinelli, poesie vincolate da contraintes e versi accompagnati da illustrazioni, con lo scopo di mostrare che proprio le traduzioni difficili, quelle che comportano sempre un qualche grado di approssimazione, rivelano la necessità di prendere decisioni, e dunque, ipso facto, commettere errori. L’importante è rifuggire dall’illusione che una traduzione, per quanto ben studiata, offra una soluzione definitiva al problema di come tradurre un dato testo. I traduttori, ci dice insomma Nasi, sono voce creatrice, e in quanto tali devono non solo prendersi la responsabilità delle proprie scelte, ma anche esercitare l’auto-critica socratica del “so di non sapere”, così da guadagnare sufficiente distanza dal proprio lavoro traduttivo e dalle griglie concettuali che inevitabilmente lo accompagnano. Il pregio maggiore del volume di Nasi è che questa imponente rivendicazione della capacità decisionale del traduttore non viene espressa dall’altare dell’oracolo – fare ciò significherebbe contestare un insieme di regole per poi proporne un altro – ma attraverso un approccio “debole” fatto di idee e tentativi. Un elogio della provvisorietà del tradurre, insomma, in cerca di una possibile soluzione di un dato problema traduttivo che mostri in filigrana la mano del soggetto traducente in tutta la sua umana fallibilità, anch’essa portatrice di senso. In questo, come appare chiaramente dal sottotitolo del volume, Tradurre l’errore non è un manuale ma un laboratorio creativo di traduzione: laboratorio evidentemente affine a quelli che Nasi stesso tiene con i suoi studenti dell’Università degli studi di Modena e Reggio Emilia, e di certo altrettanto prezioso.