Quella che segue è (l'introduzione di Manuel Orari a Testi sulla (non più) città di Rem Koolhaas. Il saggio (Quodlibet, 240 pp., 18 euro), da pochi giorni in libreria, era finora inedito in Italia.
Prima di Testi sulla (non più) città (Quodlibet 2021 euro 18), Rem Koolhaas ha meditato per molti anni di
scrivere un libro dal titolo anodino,
The Contemporary City, progetto poi accantonato perché in parte sovrastato
dai crescenti impegni e in parte superato da altre pubblicazioni, prima fra
tutte S,M,L,XL, l'ipertesto del 1995 che
segna uno spartiacque nella parabola
intellettuale dell'architetto e scrittore
olandese. Con ogni probabilità alla base di S,M,L,XL c'era appunto The Contemporary City che, ampliandosi a dismisura fra il 1993 e il '95, si è poi diluito al suo interno. «Sto scrivendo un libro che analizza Atlanta, la struttura
delle nuove città parigine e Singapore.
Gli architetti, i sistemi politici, le culture - l'America, l'Europa, l'Asia - sono completamente diversi eppure approdano a configurazioni relativamente simili, fatto di cui tutti si lamentano.
Vorrei comprendere il fenomeno e le
ragioni di queste similitudini».
Possiamo stabilire retroattivamente
le premesse di quel libro mai pubblicato che aveva comunque nella città il
suo specimen, lo stesso dell'intero pensiero koolhaasiano così come dichiarato fin dal nome del suo studio professionale, Office for Metropolitan Architecture, fondato insieme a Madelon
Vriesendorp, Elia e Zoe Zenghelis nel
1975. Nella fattispecie, sia il saggio dedicato ad Atlanta sia Singapore Songlines (1995) sono dedicati alla scoperta di
città di secondo piano, in grado tuttavia
di mettere a nudo problemi globali e
ossessioni personali dell'autore solo
attraverso la loro osservazione ravvicinata, al pari della metropoli per eccellenza: con Delirious New York (1978),
Koolhaas aveva già individuato nella
congestione urbana un fil rouge costante in tutta la sua futura opera. Se Atlanta, dominata dalla figura atipica
dell'artista-architetto-developer John
Portman, è una città senza storia caratterizzata dal «non c'è un centro, quindi
nemmeno una periferia», Singapore
non è da meno: «sempre più aspetti delle artificiosità di Singapore hanno penetrato l'ecologia delle "nostre" città,
dall'ubiquo inserimento di prati e zone
piantate ad arbusti, al pulito splendente, all'ossessione del controllo in città
come Parigi o Londra». In seguito, portando alle estreme conseguenze - cioè
radicalizzando - le intuizioni avute ad
Atlanta e i concetti studiati a Singapore, nascerà il testo sulla Città generica,
«una versione un po' camuffata, astratta e generalizzata di Songlines», un vero proprio affronto agli architetti occidentali perché la Città generica metteva in discussione il tabù del genius loci
delle antiche e sacre città europee,
«Parigi può diventare soltanto più parigina: è già sulla strada di diventare
un'iper-Parigi, una caricatura lustra».
Tuttavia Atlanta e Singapore hanno
sempre bisogno di Parigi come termine di paragone e difatti la capitale
francese è stata oggetto dei primi progetti cruciali di OMA, dai grandi concorsi mitterrandiani come il Parc de la
Villette senza contare gli altri decisivi
progetti di Euralille e della villa Lemoine a Floirac (già iscritto nella lista
dei monuments historiques) o il sodalizio con intellettuali parigini come Hubert Damisch o Bruno Latour, tanto
che Koolhaas poteva essere quasi considerato un architetto francese nel periodo fra gli anni Ottanta e Novanta,
vale a dire nello stesso lasso di tempo
in cui avveniva la gestazione di The
Contemporary City. [...] Atlanta, Parigi
e Singapore, come abbiamo in parte
già visto, ma anche Lilla, Tokyo, Berlino, New York, Mosca, Brasilia e Londra. Non si tratta di scritti teorici come
nel precedente Junkspace che conteneva anche Bigness e La Città Generica,
ma di un insieme di scritti d'occasione,
attraversati da rimandi interni labirintici, posti a metà fra esperienza e riflessione. [...]
Mancano dalla lista alcune città
extraeuropee in rapida crescita solo
perché gli scritti relativi sono rimasti a
uno stadio troppo frammentario (Lagos, Dubai, le città cinesi), ma fra tutte
è piuttosto eclatante l'assenza delle
città italiane, forse perché quelle con
caratteristiche più specifiche in assoluto e dunque irriducibili al paradigma della Città Generica o forse perché
troppo legate al tema della storia verso
il quale Koolhaas nutre un'indubbia
idiosincrasia di stampo deleuziano,
che spiega in parte la parallela idiosincrasia verso figure quali Aldo Rossi
o Manfredo Tafuri, campioni dell'architettura engagée fondata sullo storicismo. [...]
In ogni caso Koolhaas intende proseguire il suo percorso parallelo di architetto e scrittore, giocando con l'ambiguità che a volte ne consegue ma anche concedendosi una maggiore libertà di ricerca. L'antonimia si è peraltro
incuneata anche fra il ruolo dell'architetto e quello dell'urbanista: «Penso
che l'architettura sia un disperato tentativo di esercitare il controllo e l'urbanistica il fallimento di quel tentativo». I due saggi finali di questa antologia lo dimostrano: sono infatti più l'abbozzo di ricerche in corso, sebbene
agli antipodi fra loro, piuttosto che saggi definitivi su un argomento: l'antitesi
fra la cosiddetta smart city e la campagna è infatti apparente. A ben vedere
la campagna è sempre meno naturale e
sempre più oggetto di applicazione di
nuove tecnologie che vi attecchiscono
subdolamente meglio che nella città
stessa. In ogni caso «La (non più) città»,
o meglio l'inafferrabile «sostanza urbana» contemporanea - come con lessico spinozista la chiama in Singapore
Songlines - resta l'oggetto specifico di
tutta l'opera di Koolhaas che è essa
stessa in fieri e di là da concludersi.