Recensioni / Che gran calderone era l'eresia, ci son finiti ribelli, mistici (e pure papi)

Adriano Prosperi ha scelto una sola parola per riunire in un unico, ponderoso volume, trentasette saggi e articoli pubblicati nelle sedi più varie, che partono dal 1975, cioè quasi dall'inizio della sua nutrita produzione storiografica e arrivano fino ad oggi, inclusi alcuni scritti finora inediti. «Eresia» ed «eretico» derivano dal verbo greco hairéo, che vuol dire «prendere», anche nel significato di «prendere una decisione», «compiere una scelta». L'etimologia nasconde in buona parte la drammaticità e il rischio insito nel prendere strade, il che inevitabilmente comporta lasciarne altre, spesso più sicure e agevoli. Nel nostro mondo, l'eresia e gli eretici affascinano e suscitano ammirazione, almeno da quando, nell'Ottocento, il liberalismo e l'anticlericalismo sono entrati a far parte del bagaglio culturale delle classi dirigenti post-unitarie, come ci ricorda anche Prosperi (p. 714). Nelle storie raccontate in questo libro, che si svolsero quasi interamente nell'Europa dell'età della Riforma e della Controriforma, l'«eresia» era invece ancora qualcosa che non solo suscitava conflitti, ma comportava anche quasi sempre il rischio della vita, come testimoniano le vicende di tanti personaggi uccisi in nome di un'«ortodossia», che si chiamino Giordano Bruno, il filosofo condannato a morte dall'Inquisizione cattolica nel 1600, o Miguel Servet, il medico spagnolo bruciato sul rogo come antitrinitario nel 1553 nella Ginevra di Giovanni Calvino. Fu del resto nel vano tentativo di arginare l'intolleranza religiosa che sentiva montare attorno a sé che Erasmo da Rotterdam (un nome che ricorre molto frequentamente in queste pagine) propose di tradurre l'unica occorrenza del termine hairetikós nelle Sacre Scritture non con il consueto haereticus, bensì con un più innocuo e moraleggiante factiosus.
Ma quali sono gli eretici e le eresie di cui Prosperi scrive in questo volume? Colpisce, in primo luogo, la varietà, in un'epoca che solitamente i manuali scolastici (e non solo) ci presentano in bianco e nero, quando non addirittura uniformemente grigia. Abbiamo così i grandi riformatori, Lutero e Calvino, i padri di tutte le eresie moderne a giudizio delle gerarchie cattoliche; un giudizio destinato a rimanere tale, in alcuni settori della Chiesa, addirittura fino al giorno d'oggi, in cui papa Francesco viene criticato (o «fraternamente ammonito») per essere troppo vicino all'ex-monaco sassone.
Prosperi presta una grande attenzione ai rapporti tra i riformatori e l'Italia, non tanto per rimpiangere una «Riforma mancata», quanto per sottolineare le peculiarità culturali e religiose italiane, che diedero un'impronta particolarissima al periodo della Riforma e della Controriforma nella penisola. D'altra parte, non si può dire che il cattolicesimo della prima età moderna (così come quello odierno) fosse un blocco monolitico senza sfumature. Lo testimoniano vicende drammatiche, come quella di Girolamo Savonarola, ribelle a papa Alessandro VI dal punto di vista politico, e perciò bruciato sul rogo, ma legato teologicamente all'ortodossia tomistica; oppure anche quella dello stesso Erasmo da Rotterdam, molti dei cui scritti furono inseriti nell'Indice dei libri proibiti dopo la sua morte (1536). Ma addirittura alcune opere del papa quattrocentesco Pio II (Enea Silvio Piccolomini, 1458-1464) finirono all'indice (pp. 95-96). Non mancano, inoltre, gli «eretici» nel senso in cui Delio Cantimori, uno dei maestri di Adriano Prosperi, intese questa parola, ovvero i «ribelli ad ogni forma di comunione ecclesiastica», da lui visti come portatori di uno spirito autenticamente moderno: tali il già citato Miguel Servet, ma anche l'italiano Fausto Sozzini, anch'egli propugnatore di un cristianesimo non trinitario e di una compiuta tolleranza religiosa (nel Seicento il «socinianesimo» fu l'incubo di tutte le ortodossie, cattoliche e protestanti).
Decisamente affascinanti, infine, le pagine dedicate da Prosperi a mistici e visionari, solitamente caratterizzati da una fine violenta per mano della giustizia laica o ecclesiastica: l'oscuro monaco Teodoro, attivo nella Firenze del primo Cinquecento «che si faceva chiamare papa angelicho» e si proponeva di riportare la Chiesa all'età dell'oro; l'ex benedettino Giorgio Siculo, impiccato a Ferrara nel 1551; Basilio Albrisio, medico del convento femminile di Santa Chiara di Reggio Emilia, che si credeva la reincarnazione di Cristo; o ancora le monache del monastero di Santa Chiara di Udine, che nel 1590 non solo credevano in un Cristo soltanto uomo, ma sostenevano anche che «Roma è una babilonia et venirà un Angelo bianco che taglierà il capo al papa» (p. 499).
Potremmo percorrere molti altri fili conduttori disseminati in questo volume: dalla forte attenzione per il mondo delle immagini (Lorenzo Lotto, Michelangelo Buonarroti, ma anche il meno noto incisore Lorenzo Penni) alle pagine dedicate agli storici che si sono occupati di eretici e di eresie, come il già citato Delio Cantimori, ma anche l'americano Roland Bainton e lo zurighese Ferdinand Meyer. Forse però possiamo chiudere questa breve nota sottolineando come il cristianesimo, anche quello italiano e cattolico, sia un fenomeno ben più complesso e profondo di quanto immagini chi oggi brandisce crocifissi e rosari come armi politiche.