Recensioni / Una lettrice poco comune

Paola Di Cori, storica, teorica femminista scomparsa nel 2017, è stata l’artefice della conoscenza di Michel de Certeau in Italia, uno dei più importanti pensatori del secolo trascorso. Il suo studio è ad oggi l’unica ricostruzione complessiva dell’opera dello storico della mistica e della vita quotidiana. Autrice di saggi tra cui Asincronie del femminismo; Figure oscillanti, identità, sessualità, rappresentazioni; Rovine future. Contributi per ripensare il presente, Di Cori ha qui riunito le ricerche su Certeau profilando ‘per il lettore comune’ il senso di un’opera sfrangiata, sfavillante e impressa nel molteplice, interpretata privilegiandone l’intreccio dei piani teologico, semiologico e storico-antropologico. L’esito consiste in una ricostruzione complessiva dell’opera dello storico della mistica e della vita quotidiana. Stefano Pepe e Edoardo C. Prandi, collaboratori in una ricerca trentennale e curatori del sito web www.micheldecerteau.eu da lei ideato e attivo dal 2008 insieme al laboratorio ‘Prendere la parola’, scrivono nella prefazione che il più grande rischio che la studiosa avvertiva era vedere il gesuita eterodosso imbrigliato in un unico luogo disciplinare. Per evitare questo esito lei continuava a camminare accanto ai suoi scritti in una pratica quotidiana che l’autore di Fabula mistica e La scrittura della storia aveva elaborato nel nesso essenziale che lega scrivere, viaggiare, chiacchierare, camminare, cucinare.
Nella sequenza delle stazioni della vita di Certeau dalla Francia agli Stati Uniti all’Italia e al Sud-America e ritorno, è stata anzitutto Luce Giard, amica ed eccezionale curatrice che ne ha diffuso l’opera, a dare il ‘la’ all’esegesi dello storico restituendone puntualmente in convegni e raccolte di saggi le singole pieghe del pensiero. Se è lecito il paragone, Paola Di Cori ha ottenuto un simile risultato nell’intarsio di studi di genere, storia della modernità in polvere e costituzione dei discorsi in cui fino a qualche anno fa il mondo celebrava se stesso. Il frutto di questa ricerca è il condensato dell’urgenza di un sapere che, scardinando le articolazioni accademiche dello studio della mistica, fuoriusciva, a causa della rottura dell’annus mirabilis, il ’68, dalla marginalità in cui era isolato dalle facoltà teologiche e, nella stessa misura, dalla cultura storica ed etnologica, almeno fino alla metà degli anni Cinquanta.
Subito dopo la scomparsa di Certeau nel gennaio 1986 appaiono numerosi articoli e una raccolta di saggi pubblicati nella collana ‘Cahiers pour un temps’ del Centre Pompidou tra cui i contributi di François Hartog, Jean Louis Schefer, grande amico di Certeau, Derrida, Jabès, Paul Rabinow. Tuttavia, benché fosse riconosciuto negli Stati Uniti, in Cile e in Argentina per le conferenze e l’insegnamento tenuti per oltre due decenni, fino agli inizi degli anni Duemila gran parte degli scritti erano sparsi su riviste poco note e i testi più importanti spesso mancavano nelle biblioteche pubbliche europee. Grazie all’infaticabile iniziativa di Luce Giard la situazione cambia quando i libri più importanti escono in edizione economica e dopo lunga attesa nel 2013 viene pubblicata Fabula mistica II, tradotta in inglese nel 2015 e in Italia nel 2016 a cura di Silvano Facioni. A partire dagli inizi degli scorsi anni Novanta i contributi statunitensi sono notevoli soprattutto per merito di Jeremy Ahearne, Ian Buchanan, Ben Highmore con monografie che fanno seguito a quella, capitale, di Giard del 1998, Le voyage mystique. Nei primi anni Duemila una vera e propria fioritura di saggi e numeri unici di riviste di storia e teologia, antropologia e semiotica arricchisce la bibliografia critica su Certeau. In Francia la decisiva biografia di François Dosse, Le marcheur blessé avvia l’uscita di studi critici tra cui, dalle note al libro, bisogna citare A partir de Michel de Certeau: des nouvelles frontieres (1999); Michel de Certeau. Les chemins d’histoire (2002); Michel de Certeau, histoire/psychanalise. Mises à l’epreuve (2002).
In Italia la ricezione di Certeau si svolge in due fasi, la prima dovuta agli appuntamenti estivi del Centro Internazionale di Semiotica a Urbino negli anni Settanta, animati da Pino Paioni. I documenti di lavoro di quella stagione in corso di ristampa comprendono gli interventi sul credere, sulla lingua mistica e sulle glossolalie. A seguire la cospicua diffusione dell’opera certiana è dovuta in larga parte a Michele Ranchetti e Carlo Ossola che hanno curato l’edizione di testi pubblicati in Italia prima che in Francia. Tra questi, L’operazione storica e le raccolte Politica e mistica e Il parlare angelico, quest’ultima concordata con l’autore. La scrittura della storia viene pubblicata la prima volta nel 1977; Fabula mistica e L’invenzione del quotidiano nel 1989 e nel 2001. Dopo il 2005 escono opere rimaste inedite: Storia e psicoanalisi, Debolezza del credere, La presa di parola, Lo straniero o l’unione nella differenza, Il Cristianesimo in frantumi, gli scritti sulla mistica e La possessione di Loudun. L’importante Che cos’è un seminario? e il saggio sull’esploratore Padre Lafitau, già in La scrittura della storia, sono ripubblicati nel volume La scrittura dell’altro (2005). La critica si vale tra l’altro degli studi di Stella Morra, Pas sans toi e di Monica Quirico, La differenza della fede, che aprono la riflessione teologica alla contaminazione certiana. L’apertura del sito web Michel de Certeau in Italia è un esaustivo e aggiornato riferimento per pubblicazioni, studi e iniziative.
In questo quadro le considerazioni di Paola Di Cori sulla conoscenza ancora parziale dell’opera certiana chiariscono i motivi della difficile penetrazione di un pensiero incollocabile. Traduzioni poco accurate, espunzione dalle storie dei gesuiti, benché l’elezione di Papa Francesco abbia favorito una maggior circolazione del suo nome, dimostrano l’aspra diffidenza che ancora circonda l’autore tra storici, filosofi e psicoanalisti. Del resto la tradizione culturale italiana impedisce la precisa individuazione di genealogisti dirompenti che sono invece trascinati dalla temperie filosofico-politica nella generica definizione di post-strutturalisti, e in sostanza edulcorati nella prospettiva di un’accademia che li ha compressi nell’asfissiante contenitore della French theory e, visto il successo dell’etichetta, dell’Italian theory, qualsiasi cosa voglia dire.
Invece, come scrive nell’Introduzione al volume Pierluigi Cervelli, è Certeau critico del cristianesimo che permette a Certeau filosofo l’interesse verso la cultura e la prassi quotidiana in vista della costituzione di «una scienza pratica del singolare» che proviene dalle ricerche religiose. Nell’indistinzione dei saperi le tracce del passato, vissute come sopravvivenze, affettano il presente la cui attuale devozione è, o può essere, luogo di sovversione. Per Certeau la prassi è l’opera di minuziosa, paziente tessitura delle tracce che restituiscono il corpo di un’epoca – la mistica esplosiva tra XVI e XVII secolo, la nascita blasfema quanto più ‘religiosa’ dell’etnografia tra i primi viaggiatori del Nuovo Mondo, l’incredibile progetto esotico e visionario del Padre Lafitau, nonché il tempo trascorso della psicoanalisi e della semiotica. Ma quelle tracce sono attraversate dall’inevitabile assenza che il presente assegna al passato che lo pervade. Nella scrittura però, non nella realtà, e per tanto che i segni possono simulare il reale, per poco lo scambio simbolico con la morte non riesce a fondare la finzione dello sguardo.
C’è bisogno di districare tutto questo. Certeau praticava la dispersione ed elaborava tesssiture discorsive ascoltate dal ‘fare mistico’, reinventando così la modernità in cui il lettore invece di ‘ritrovarsi’ si smarrisce felicemente. Le sue ricerche risiedevano in quella archeologia del sapere che Michel Foucault aveva accuratamente distinto dal lavoro dello storico e del linguista. Gli anni di Certeau sono quelli di Gilles Deleuze e di Roland Barthes, delle eterologie teoriche e pratiche degli scorsi anni Settanta, della libertà del desiderio dell’altro di cui la scrittura era parte essenziale come l’estinzione della famiglia, dello Stato e della proprietà privata di affetti e passioni. Della gioiosa macchina celibe del ’68, testimoniata nell’emblematico testo La presa di parola, risalta la rivendicazione dell’autonomia e dell’autogestione e la festa della libertà – potere dell’immaginazione e festività poetica:

Allo stesso modo, possiamo disegnare questa nuova ragione a partire da ciò che ricusa: un sapere ‘depositato’ la cui assimilazione trasforma coloro che lo acquisiscono in enti di un sistema; istituzioni che arruolano i propri ‘impiegati’ per cause che non sono loro; un’autorità votata a imporre il suo linguaggio e a censurare il non conforme. In ogni caso, più che a tali questioni generali […] più che all’evocazione di una rivoluzione culturale […] dobbiamo fare riferimento […] a qualcosa di più semplice e più radicale […] uno stile d’esperienza, un’esperienza creatrice, cioè poetica.

Da qui l’esperienza dello stile, della scrittura inafferrabile, funanbolica, visionaria, in un’opera che rimane indecifrabile. Il testo è il luogo dell’assenza, corpo in parole, corpo di un desiderio che tanto più la psicoanalisi cercava (e cerca ancora?), tranne rari casi, di imbrigliare nel posto vuoto della legge, tanto più sfuggiva (‘se ne fugge’ dicevano Deleuze e Guattari) lungo la traiettoria di piacere che elude la morte nel godimento. L’assente della storia di cui Freud ha tracciato il progresso emerge dal fondo del passato come un fantasma che Certeau certifica come il vero corpo non riproducibile della natura.
Aderente e sostenitore dell’“École freudienne” di Lacan dalla fondazione nel 1964 allo scioglimento nel 1980, a cui si oppone, scrive nel 1981 Lacan: un’etica della parola che apparirà l’anno seguente sulla rivista «Le Debat» di Pierre Nora (ora compreso nella raccolta Storia e psicoanalisi. Tra scienza e finzione). Nella prefazione Michele Ranchetti scrive che Certeau si oppose alla ‘scolasticizzazione’ dell’insegnamento di Lacan, l’École essendo «una forma possibile di ricerca e di insegnamento che poteva conservare il carattere seminariale ormai estrameo all’istituzione accademica ed esercitarsi in vivo, ossia nel corpo, nel fare». A differenza che presso gli attuali incensati maestri di verità, è il gesto di sottrazione a contare, il disprezzo verso «i grandi mezzi di comunicazione nel tentativo di acquisire maggior visibilità». Ciò perché nell’ambito della ricerca Lacan trasgrediva, fino ad un certo punto, «la regola che fonda la capitalizzazione del sapere sulla comprensibilità degli enunciati». Tanto è vero che alla fine saranno diagrammi e nastri di Moebius a prevalere laddove forse sarebbe stata questione di storia non di linguaggio.
Mentre il campo di indagine si riduceva al linguaggio, fino alla perdita di parola e alla fondazione dei famosi ‘nodi’, – per Certeau tutta la storia, cioè i conflitti e le rotture, sono in gioco nell’anamnesi biografica. Un’archeologia del soggetto, come ha rilevato Giorgio Agamben, non può infatti consistere nella ricostruzione razionale della faglia di conscio e inconscio, bensì nell’assunzione del passato che diviene storico laddove avviene come immemoriale del presente. Questa traccia vale a rimemorare il cristianesimo ‘esploso’, tema di un dibattito radiofonico nel 1973 all’allora radio pubblica francese ORTF con Jean-Marie Domenach, direttore della rivista del ‘personalismo’ «Esprit», combattente della resistenza e iniziatore con Foucault del GIP (Groupe d’information sur les prisons). Il tema della storia in rapporto al credere risulta faceva apparire sempre più la verità della civiltà, che è dominio e devastazione. Sotto traccia, le epoche di pacificazione si valgono di filosofie ‘dialoganti’, ospitanti, relazionali, o peggio, terapeutiche, di consulenza, che non fanno prova dell’“altro”:

L’esperienza dell’altro è terribile, analoga a quella di Dio nella Bibbia, che non si può incontrare senza morire. Non sopporta di esser trattata con il sentimentalismo o l’ideologia di quei ‘dialoghi’ che, nella realtà, negano l’altro e cercano alla fin fine di avvolgerlo, sedurlo, neutralizzarlo, catturarlo o sfuggirgli […].

Questo perché la storia «ci colloca in un luogo particolare. Non ci autorizza a occupare il posto degli altri, né a parlare in loro nome. Il primo segno di questa determinazione è il ruolo che il passato gioca nel presente». Per Certeau, segnala Di Cori, il passato non insegna niente e non rivive per il tocco magico di qualche odierno istitutore, e il suo fine, se pur ne ha uno, non è decifrare il presente e raggiungerlo, ma divenire contemporaneo. Il passato apre nel presente un senso imprevisto e non saputo. Irrompe il gesto che rovescia non l’illusionismo decostruente e lo squarcio fa mancare al potere di ragione, al potere del maestro, il soggetto che pretende di imporre il senso atteso di una prova di verità. D’altra parte è il lettore che assume il compito, relativo al posto vuoto dell’autore, di fare della perruque, di fare cose per sé, di fare la ‘parrucca’ al potere di dire e di capire, di praticare l’arte dell’insubordinazione che, dalle avanguardie artistiche di primo Novecento ai situazionisti si traduce nello sviare e invertire la rotta, le immagini, gli spazi.
L’effetto è dissuasivo, ottenuto dalla storia della progressiva autonomia della lettura dalla norma del libro, dal ‘fare caos’ dell’ordine del discorso. Un fatto politico dunque, un’arte di giocare, la cui tattica consiste nel rigirare i fatti imposti e le cui strategie indicano la capacità di isolare un luogo autonomo dal potere e di calcolare dei rapporti di forza con un ‘ambiente’ circoscritto. All’autore scomparso parlerebbe, a differenza che al presente, un lettore abile e raffinato, mentre oggi la chiacchiera domenicale, il caquetoir, è preclusa nel dominio ‘social’ a cui tutti sono subordinati. Le arti del tempo quotidiano, la scrittura anzitutto, sono strategie archeologiche non emergenze testimoniali, e in questa archeologia le istituzioni si mostrano per ciò che sono: sopravvivenze in cui si vive come in una fiction, – illusioni di un referente svuotato. Quanto più le si combatte di fronte tanto più affermano il loro potere di regolazione e di filtraggio dei corpi. La mistica è stata (è?) una pratica di resistenza, non solo all’ordine teologico ma anche al potere storico-politico, perché sfuggiva all’inchiesta antropologica sulla norma di corpi e lingue.
In Certeau la scrittura apre spazi come la preghiera, la parola e il viaggio, ma da un esilio. I due strepitosi volumi di Fabula mistica XVI-XVII secolo, rendono nota la strategia che dal II secolo in Palestina a Teresa d’Avila e Juan de la Cruz sarebbe giunta fino ai più prossimi eventi di destituzione dei dispositivi di sapere-potere: scrivere, praticandola, l’assenza, al chiuso di un convento o all’aperto in una piazza, o camminando per strada, disfacendo la lingua mediatica e i luoghi catturati dalla norma. «All’inizio la lettura procede spedita, ma dopo qualche paragrafo sopravviene un senso di sconcerto per la perdita di orientamento». Si legga l’enorme visione del Giardino delle delizie di Bosch, prodigiosa inserzione della metafora dello sguardo mistico nel testo della fabula. La perdita di senso organizzata dal pittore della Confraternita di Notre-Dame, Certeau la rende nell’affezione psichedelica dell’espressione. Eppure l’assenza dilaga, dopo la costruzione. Una teoria del mandala sembra applicarsi, miscelata alla geometria neoplatonica di Nicolò Cusano, come in uno dei saggi più difficili e seducenti, ora nel secondo volume della Fabula.
Nell’insistere sul rapporto tra lettura e scrittura l’opera di Certeau è pressoché unica. La scrittura non coincide con l’inizio e la fine di un testo il cui piacere si ricava dall’assenza di identità di un tema, di un soggetto, di un argomento. È piuttosto l’opera senza fine in cui saperi divergenti esplodono in frammenti che si compongono in enunciati di strana coerenza, stranieri al senso essendo di univoco significato. Così la scrittura della storia è la campitura dei rapporti notevoli e sdruccioli tra mistica e storia, tra storiografia e racconto degli eventi e tra storia ed etnografia lungo la direzione che spariglia parola e immagine, volontà di racconto e soggetto che racconta. La tradizione religiosa e letteraria classica fa risuonare «le audacie poetiche della mistica spagnola, tedesca e fiamminga; si gonfia di giochi verbali nello sforzo di replicare e restituire ai lettori increspature, spirali, aperture – indici di quelle ‘pieghe’ esaltate da Deleuze come segno distintivo della cultura barocca». Visibile e invisibile si convertono, credere e far credere, spazi e luoghi si moltiplicano implicandosi in uno stile terso in cui la ragione incide il magma primordiale e la sensualità eccita la pudica esibizione della bella maniera.
Un lungo, rigoroso e paziente apprendistato religioso e intellettuale caratterizza la prima parte della vita di Michel de Certeau, scrive qui Paola Di Cori. Entrato nella Compagnia di Gesù nel 1954 viene ordinato nel ’56. Inizia lo studio della mistica e della storia dei gesuiti e scrive su D’Argenson, Favre e Surin, protagonista quest’ultimo della strana vicenda della possessione di Loudun. Il testo è emblematico del metodo conseguito a contatto con lo strutturalismo, l’antropologia religiosa di Dupront e la linguistica di Greimas e Jakobson, nonché della nuova storia delle «Annales» e di Fernand Braudel. Era l’epoca della Nouvelle Vague cinematografica e dei «Cahiers du Cinema», del Nouveau Roman di Robbe-Grillet e Nathalie Serraute, della rivista ‘Tel Quel’. Erano gli anni della rottura epistemologica del marxismo accademico e della filosofia dei ‘funzionari dell’umanità’, con l’esodo dalle continuità e dall’autorialità praticato da Foucault e da Deleuze e Guattari; erano gli anni del primo femminismo della differenza di Luce Irigaray e Hélène Cixous; delle decostruzioni filosofiche di Derrida e simboliche di Lyotard, propaggini iniziali del cosiddetto post-modernismo espresso in successione da Jean Baudrillard.
Dalla metà degli anni Cinquanta alla metà dei Sessanta correvano gli anni della decolonizzazione e del Concilio Vaticano II che Certeau segue al pari delle inchieste sulla vita quotidiana di Henry Lefebvre e al situazionismo, nonché alla riflessione di Guy Debord destinata ad archiviare il marxismo della cattedra precedente e successivo. Le ricerche sulle missioni in Africa, Asia e Sudamerica lo portano in Brasile nel 1966, quindi in Argentina e in Cile. Nel ’67 rimane cieco all’occhio destro per un incidente automobilistico in cui muore la madre. Nel ’69 è negli Stati Uniti. Nel 1980 visita il Canada e il Messico. Dal ’78 all’84 insegna presso l’Università di San Diego, quindi è chiamato alla cattedra di Antropologia storica delle credenze all’École des Hautes Etudes en Sciences Sociales a Parigi. Lungo gli anni Settanta furono pubblicati L’Etranger ou l’union dans la difference, La possession de Loudun, La rupture instauratrice e La culture au pluriel che comprende i saggi scritti tra il ’69 e il ’73 e nel ’74 Le Christianisme éclaté. Gli interventi su riviste sui temi della crisi delle istituzioni ecclesiastiche, della scuola, sulla riorganizzazione dei saperi e le traformazioni della città sono innumerevoli. Organizza gruppi di studio e seminari la cui pratica sarà esposta in Che cos’è un seminario? , nel magnifico annus terribilis 1977, in cui la presa di parola del ’68 diviene indice di metodo della parola irriducibile: parola del rifiuto del lavoro e delle istituzioni, rifiuto del futuro e dei dispositivi di soggettivazione approntati dal dominio delle merci-spettacolo.

Frequentare un seminario non significa abitare ‘un luogo comune’. Al contrario, obiettivo primario diventa ‘l’esplicitazione della sua pluralità’, ‘riconoscersi differenti’; soltanto così, lavorando ‘sulle e tra le differenze’, l’esperienza del tempo è in grado di trasformarsi in ‘storia comune e parziale’, e la parola può così diventare lo strumento di una politica […].

L’esperienza, termine mutuato dalla mistica, assume valore nella vita di ricerca, nella potenza del gesto collettivo che sorge in quegli anni «dalla parte del non-sapere o di coloro che erano considerati come degli irresponsabili». Nell’ampia biografia di Dosse la rottura con il sapere accademico, ecclesiastico e laico, emerge come il ‘rimosso’ della scienza occidentale: le gerarchie di razza, età, sesso, salute mentale divengono emergenze di rivolta: i neri, gli studenti, le donne, i folli, i detenuti.
Certeau «legge una trasformazione radicale di alcune certezze che è paragonabile a quanto egli ha analizzato per l’universo cristiano della seconda metà del Cinquecento, quella profonda crisi […] cui i mistici danno voce con il loro ‘patimento’ fisico e spirituale». ‘Parlare angelico’ è una delle formule più incisive per indicare la forma sovversiva di una lingua eterodossa e instabile, sensuale, talmente situata e ‘fisica’ da sbaragliare le teoriche più accidentate intorno alla questione mente-corpo, sesso-genere, collettivo-individuo. L’angelo è il numero (le miriadi) e il singolare. È inafferrabile nell’assenza di rappresentazione in cui si situa la sua presenza, come in Hamann, Rilke, Kafka, Klee, Benjamin, Artaud, e come l’angelologia di Henry Corbin insegna. Angelizzare è praticare la coincidenza degli opposti, operazione che consiste nell’attraversare, nel passare, nell’annunciare un evento che rompe il corso storico. Nel secolo ricco di angeli tre apparizioni esemplano l’opera, in Teresa d’Avila, Jakob Böhme e Angelus Silesius. L’angelo rende folle di piacere e di dolore Teresa; è il caos che «confonde tutto con questo fuoco che pianta nel corpo». Böhme ne l’Aurora fa figurare un angelo «che non smette di strapiombare sull’uomo». In Silesius l’angelo «è il contrassegno celeste di un oltrepassamento che non smette di mirare all’estremo». La lingua angelica è pratica e operativa. È una lingua storica che va vagliata a partire da tracce e residui; riorganizza una finzione in cui «si mette in scena una rappresentazione di vivi laddove sono ormai tutti morti». Nell’ultima modernità l’angelo entra come affare letterario: escluso dal deserto, torna «nelle periferie sospette delle città attraverso vie illegittime, sotto la forma grottesca, animale o mostruosa di uno straniero che non ha più un posto nella città del progresso».
Certeau parte là dove Foucault era approdato: da un’archeologia. La scrittura della storia sarà l’archivio della contemporaneità, il continuo attraversare le tracce e le illusioni affinché emerga una realtà differente. Proseguendo si trova questa attenzione: «la miriade di comportamenti assai vari, di cambiamenti, di legami e di conflitti esistenti tra gli uomini e le donne dei secoli passati, […] sono somiglianti a quelli che caratterizzano il presente». Nello scarto e nella differenza, entre-deux, la figura distintiva dell’altro è la sua prolusione, la pluralità dei soggetti presenti sulla scena, che è pur sempre la scena storica di cui Debord chiedeva nei Commentari sulla società dello spettacolo: «Cosa rimane quando lo spettacolo organizza l’ignoranza e l’oblio di ciò che è saputo?». Poiché le insorgenze, dal ’68 all’altroieri, sono state sommerse da una marea di menzogne sollevate in pubblico, saranno la scrittura e l’esperienza a risarcire il passato nel presente.
Heterologies recita la raccolta statunitense che ha esteso la memoria dell’opera certiana; pur incompleta, allude al progetto di una enciclopedia dei saperi marginali che hanno trovato una prima definizione in Bataille. La posta in gioco è la discesa nell’abisso ove si concentra la parte rigettata e abietta, la parte maledetta, l’impulso alla rivolta e ad un sapere superiore. Si tratta della successione di pratiche di opposizione che in L’invenzione del quotidiano non hanno la forma del conflitto frontale contro il potere, bensì delle arti del fare, – esercizi spirituali attraverso i quali vivere rapporti altri con altri: scrivere, camminare, cucinare, destituire i luoghi frequentati, i centri storici, il tempo libero. Creatività ‘eterologa’ in cui le operazioni sul presente divengono forma di vita. Certeau indica così la direzione in cui si inventa il giorno deserto. L’indicazione consiste per un verso nel rifare sorte e destino degli spazi abitati; per altro verso, il verso dell’“altro”, nell’aprire uno spazio alla morte, laddove la lingua del medesimo dissolve di continuo le tracce straniere.
Il senso imprevisto del morire, il non saputo di ogni vita, si comprende forse nel gesto che sposta, che sottrae e crea il vuoto, mentre l’illusionistico decentrare, istituire, intervenire, non fa che perpetrare la legge del desiderio, la volontà di verità, il soggetto del discorso che impone, autorizza, decide il vero. In due luoghi Certeau pone la morte nell’essere mentre il nesso scrittura-testo-morte ne anima l’opera impedendo che il testo si trasformi in libro, in oggetto stampato che, come asseriva Blanchot, dissimula e offusca l’opera. Nel fascicolo inaugurale della rivista del Centre Pompidou “Traverses” lo scritto di Certeau è Écrire: l’innomable, che sarà il capitolo finale de L’invenzione del quotidiano. Il richiamo è al romanzo di Ingeborg Bachmann Malina e alle arti del morire diffuse fin dal Medioevo. Le arti di morire sono operazioni di elaborazione del lutto, di lavorio su resti putrefatti e irrecuperabili, frammenti impuri che l’ingresso della moderna macchina della morte generica scompone.
Soggetti senza azione e opere senza autore insistono nello spazio indicibile in cui si è ricondotti al confine estremo dell’inazione, là dove è la più impertinente e la meno sopportabile. Il moribondo è osceno e innominabile, inaccessibile al potere e alla medicina. Poiché il corpo trasformato dal XV al XVIII secolo si isola sempre più nell’affare medico della cura, come Ivan Illich dimostrava in Nemesi medica e come Foucault aveva mostrato in Nascita della clinica e poiché

[…] al regno di una politica giuridica subentra quello di una politica medica, quello della rappresentazione, della gestione e del benessere degli individui, si verifica un mutamento dei postulati socio-culturali […]. È lo spettacolo del corpo ma nel passaggio dall’applicazione del diritto a quella di una medicina chirurgica e ortopedica, lo strumentario conserva la funzione di marchiare o conformare i corpi in nome di una legge.

Nel moribondo è l’immorale che lascia vuoto il corpo giuridico ridotto a corpo fisico, che è tale proprio in quanto è un corpo sottoposto ad un’amministrazione incaricata di guarire e di organizzare l’ordine in forma di prevenzione. D’altra parte la pratica del libro nella costituzione della scuola come “polizia medica” diviene finzione del corpo scrivibile. E tuttavia il mezzo di lotta alla senescenza, come la carta da scrivere, si logora. «Ciò che si produce come gestione di vita, controllo o scrittura del corpo non cessa di parlare della morte sempre all’opera». La morte innominata entra alla fine dei tempi perché questa fine «permette di enunciare ciò che l’ha fatto vivere, come se dovesse morire per diventare un libro». Se si sapesse che scrivere è attraversare il terreno nemico, fuori dalla circoscrizione che aveva lasciata impensata la morte, il profluvio di carta stampata in cui per lo più non c’è scritto niente, venduta ai supermarket della cultura, sarebbe sostituito da quei testi davvero scritti in cui il moribondo cerca di parlare.
La seconda esigenza della morte che Di Cori rievoca è la trasformazione della lettura a voce alta in visione nel corso del XVI secolo. L’universo cui si accedeva attraverso i sensi, tatto, odorato, gusto e udito, «subisce un processo di de-vocalizzazione, che cede il passo all’ascesa della visione e al trionfo di criteri di conoscenza che privilegiano gli aspetti testuali, alfabetici e scritti della cultura». Nel 1983 Certeau scrive tre pagine, Extase blanche, pubblicate in appendice a La faiblesse de croire che preannunciavano l’angelo della morte. È un testo visionario che racconta l’esperienza di Simone stilita accecato dal vedere. Al visitatore giunto dal paese di Panossi che vuol vedere Dio il monaco risponde che vedere è vanificare le cose viste. Lo sguardo distrugge e acceca. Quando tutto è visibile la morte presente nella vita scompare, diventa il fantasma che la assilla e contro cui si combatte in stato di emergenza. In questo stato quanto più la scrittura si fa antidoto della morte tanto più si annulla nel discorso che replica all’infinito la distruzione dell’altro e del mondo nell’illusione dell’immortalità.