Fu vera gloria? Se anziché ai posteri
l'ardua sentenza su Napoleone fosse stata lasciata ai rivali politici o ai gazzettieri - o a vecchi pornografi misogini
come Mannelli, come accade oggi per il
Renzi della Leopolda - il risultato sarebbe stato scontato, pieno di rancore e
pregiudizio. Legittimi oppositori Bonaparte ne ebbe moltissimi, e non tutti restauratori codini ma persino liberali in
anticipo sui tempi. Poi ebbe che gli
odiatori: le rivoluzioni non sono mai
pranzi di gala. Che c'entra Napoleone
con Matteo Renzi? Niente ovviamente,
è solo uno di quei paradossi che possono nascere a volte dai paragoni fuori
scala, di quelli che si possono concepire
soltanto con una buona dose di ironia,
ma anche di prospettiva storica. Insomma evitando di fare come quelli che
danno la colpa di Trump a Thomas Jefferson. Eppure esiste un tipo di personalità politiche di cui, più che per altre,
si dovrebbe lasciare la sentenza ai posteri. Un po' per la rapidità del loro tragitto, un po' perché non è mai facile stabilire se la rivoluzione l'abbiano fatta, o
abbiano affossata quella degli altri.
Nei suoi anni a Sant'Elena, di questo giudizio lasciato in sospeso (tranne
che nelle sentenze di chi lo aveva
sconfitto), di questo senso di missione
incompiuta, Napoleone si crucciò
molto. Ne esiste una traccia straordinaria come un romanzo, anzi come un
diario autentico, anzi no: come un misterioso manoscritto ritrovato in una
bottiglia. La Storia declinata nei modi
della letteratura fantastica. Il documento illuminante è un piccolo libro
dal percorso carsico lungo oltre due
secoli e da poco ripubblicato da Quodlibet. Si intitola Il manoscritto pervenuto misteriosamente da Sant'Elena,
con un bel saggio introduttivo di Sergio Romano. Il titolo non è un giochino
acchiappa lettori, è esattamente il
frontespizio con cui fu pubblicato a
Londra nel 1817 dall'editore John
Murray di Albemarle Street, cui era
giunto in circostanze misteriose: "Manuscrit venu de St. Hélène d'une manière inconnue". Nella "avvertenza",
l'editore di questa opera, pervenutagli in francese da persona ignota che
assicurava però la provenienza
dall'isola dell'esilio, scriveva: "Se essa sia stata veramente scritta da Buonaparte, o da un suo intimo amico, è
questione su cui possono farsi solo
congetture. V'è in essa qualcosa che
ricorda il suo stile e ancor più i suoi
modi... ed è ciò che ci attenderemmo
dall'Autore apparente o da un suo valente avvocato nascosto dietro il suo
nome". Dopo due secoli, l'intricata paternità è ancora irrisolta, come spiega
con gusto Sergio Romano. Nel giugno
di quello stesso anno, il medico che
aveva in cura l'Imperatore a Sant'Elena gli consegnò un giornale inglese
che riportava alcuni estratti del Manoscritto. Napoleone ammise che lo stile
a tratti ricordava il suo, ma negò di
averlo scritto. Nei mesi successivi dettò personalmente una serie di note e
correzioni molto puntuali: quasi a
confermare che lo scritto non era suo,
ma ci si poteva anche riconoscere.
Scritto da un amico? Da un nemico? I
sospetti ricaddero soprattutto su Benjamin Constant e su Madame de Stael,
regina dei salotti letterari e nemica di
Bonaparte. Faccenda per specialisti,
ma diverte scoprire quante "bestie"
propagandistiche erano all'opera già
prima della nascita di WhatsApp.
Il punto che rende interessante oggi
il Manoscritto è un altro. Chiunque
l'abbia redatto, ha scritto una difesa
"per i posteri" dell'epopea politica -
più che militare - di Napoleone in cui
si cerca, con qualche verità e alcune
forzature, di tracciare il percorso ineludibile. Parlando in prima persona,
questo Napoleone assai letterario dai
toni caustici e ritmati come una marcia militare, traccia in ogni caso il diario di una sconfitta. È a Sant'Elena e
non tornerà. Il suo progetto non è fallito: è stato sconfitto. Ma alcuni risultati
sono destinati a restare. Napoleone
conduce una guerra perpetua perché
l'esercito e la guerra sono l'unico spazio in cui si trova bene. Ma presto capisce (o il suo alter ego gli attribuisce)
che fare la guerra - portare dalla propria parte "la metà più uno dell'Europa" - è l'unico modo per far vincere la
Rivoluzione. Se la Rivoluzione fosse
rimasta nei confini della Francia sarebbe stata spazzata via. Dopo il Trattato di Campoformio commenta: "Il
partito con cui mi ero schierato era rimasto padrone della Repubblica. Lo
avevo aiutato perché era il mio partito
e perché era il solo che potesse far
funzionare la Rivoluzione. M'ero convinto che occorreva realizzare la Rivoluzione perché essa era figlia del secolo e dell'opinione". Napoleone fu un
rivoluzionario o la sua nemesi? Whatever it works, avrebbe forse detto. Un
puro pragmatico, un puro realista, come si (auto?) descrive. Giovane militare nel caos della rivoluzione, odia il
caos e l'anarchia: perché non funzionano. Ma la rivoluzione è lo spirito del
tempo e bisogna farla funzionare: "Sarei stato di lì a poco padrone della Rivoluzione, ma non il suo capo. Ero
chiamato a preparare il destino della
Francia, forse del mondo". Il ritratto
di un megalomane che sapeva quel
che faceva. Non voleva un potere antico: "Occorreva che il mio potere avesse un carattere interamente nuovo e
che tutte le ambizioni vi trovassero lo
spazio necessario". Volle essere imperatore non per ambizione (dice il
Manoscritto) ma perché fosse qualcosa
di nuovo, nato direttamente dalla Rivoluzione. Il tradimento della rivoluzione come il suo compimento naturale, tema antico e sempre nuovo. Ma la
posta era "il rinnovamento dell'ordine sociale". Per farlo ci vuole un potere che superi le divisioni e le chiacchiere: "La repubblica aveva soddisfatto soltanto le opinioni; l'impero
garantiva, con le opinioni, gli interessi". C'era solo una strada, la sua, opporvisi non sarebbe servito: "Non sono io che ho inventato questo sistema:
è balzato fuori dalle rovine della Bastiglia. Invano cercheranno di distruggerlo: resterà grazie alla forza delle
cose". Un percorso ineluttabile, cui le
forze della Restaurazione potranno
opporsi vittoriosamente, ma senza
vincere davvero. Per salvare la Rivoluzione, Napoleone deve sacrificarne
la libertà: "La libertà, del resto, serve
solo alle classi illuminate della nazione,
mentre l'eguaglianza serve a tutti".
Scrive Romano: "Il regime cui il personaggio del Manuscrit intende affidare la salvezza nazionale è quindi
una grande dittatura popolare, senza
caste e corpi intermedi, in cui tutti
possano aspirare alla proprietà". Suona tremendamente moderno, e non
certo solo renziano. La rivoluzione era
lo spirito del secolo, garantita da un
potere nuovo, sospinto dall'interesse
della maggioranza. Imporla ai riluttanti è il merito che Napoleone rivendica a se stesso. Da sconfitto, ma ha ragione: il mondo non potrà più tornare
indietro dal nuovo potere, dai nuovi
Codici, dalla nuova eguaglianza. La rivoluzione ha vinto e la libertà, come
l'intendenza, seguirà. Eppure era a
Sant'Elena, nella sua prigione in mezzo all'Atlantico.
Ci vuole molta ironia, e senso delle
sproporzioni, per immaginare un manoscritto misteriosamente giunto dalla Leopolda, qualche giorno fa. I posteri diranno se il discorso flamboyant
di Renzi è un programma che supererà la soglia del due per cento, o se è
l'annuncio dei cento giorni finali. O se
è già la rivendicazione di un percorso
che s'è lasciato indietro un po' vittorie
e un po' di riforme incompiute per la
fretta di a tutto arrivare - come l'intendenza di Napoleone. Comunque sia,
Renzi ha ragione almeno su due cose,
come Napoleone: la rivoluzione avvenuta è irreversibile. Non c'è nuovo
Ulivo, né capo largo né una sinistra di
prima che possano tornare al prima.
Quella sinistra e quella società sono
finite. Può momentaneamente vincere la controrivoluzione ma il mondo è
cambiato per sempre, anche se in Italia la novità è durata lo spazio di un
mattino. L'altra cosa che, come Napoleone, è costretto a sapere è che aver
strappato la rivoluzione dalle mani di
quelli che ne pretendevano il monopolio genera un odio infernale, infinito. Renzi, a sinistra, ha smontato una
rendita di posizione conservatrice. E
questo "resisterà grazie alla forza delle cose perché i fatti finiscono sempre
per coincidere con la forza", come dice l'alter ego del suo ironico alter ego.
Capitò, all'estensore di questa lettura
apocrifa di un manoscritto apocrifo, di
scrivere che Renzi aveva sbagliato i
conti, che avrebbe dovuto scegliere
un'altra strada: invece si era impossessato della Bocciofila e ci aveva organizzato un rave party di quarantenni liberai. Quelli della Ditta lo odiano
per questo, e lo odieranno sempre. Ma
nulla tornerà indietro, si devono rassegnare. Se poi sia la Leopolda o
Sant'Elena, lo diranno i posteri.