«Chi non ha mai studiato il tedesco
non ha idea di che lingua assurda
sia». E uno dei giudizi sferzanti di
Mark Twain in La terribile lingua tedesca, testo edito per la prima volta negli Usa nel
1880 e ora proposto da Quodlibet (pagg. 136,
euro 14,50, a cura di D. Baldi). A metà tra
parodia e articolo scientifico, proposto qui
con abbozzi di racconti e una commedia in
tre atti, il testo conferma il talento umoristico-satirico dell'autore. Lui l'aveva studiato, il
tedesco, provando anche a praticarlo, nella
forma parlata e in quella scritta, fin da giovanissimo, ad Hannibal, città del Missouri con
una numerosa comunità di immigrati provenienti dalla Germania. E addirittura collaborò con l'«Anzeiger des Westens», il più diffuso
quotidiano di lingua tedesca dell'Ovest. Ma
Twain era tutt'altro che padrone della lingua
e, chiamato anche a comporre i caratteri di
stampa, riempì costantemente il giornale di
errori e refusi.
In famiglia tutti capivano e parlavano il
tedesco meglio di lui, e non gli servì molto
neppure la tata originaria del Baden, come a
nulla valsero i suoi viaggi e soggiorni in Germania e in Austria. «Al diavolo il tedesco,
non riuscirò mai a impararlo. La signora Clemens invece fa grandi progressi, e la signorina Spaulding e la nostra piccola Susie parlano questa lingua infernale senza difficoltà»,
scrisse all'amico W.D. Howells da Heidelberg nel 1878, durante il primo viaggio in
Europa. Per tentare di cavarsela, si decise
per il mélange, cioè per il suo tedesco elementare infarcito di termini inglesi. Una formula felice, visto sarebbe diventato il suo
stile perla conversazione e per le conferenze
in terra tedesca e austriaca.
Per lui il «terribile» del tedesco era dato
dagli accumuli di verbi alla fine delle frasi,
dai verbi con prefissi separabili, dalle parole
composte, dalla declinazione degli aggettivi.
Ma non mancava la critica a termini usati in
contesti specifici, che considerava inefficaci:
«Chi vorrebbe morire in una battaglia qualificata con un termine insipido come Schlacht?».
Twain sosteneva che una persona di talento potesse imparare l'inglese in trenta ore, il
francese in trenta giorni e il tedesco in
trent'anni. Alla fine del saggio, tuttavia, giunge alla conclusione che il tedesco dovrebbe
essere collocato tra le lingue morte, poiché
solo i morti hanno abbastanza tempo per
impararlo. In effetti quella con la lingua teutonica è stata per lo scrittore americano una
lunga battaglia da cui non è mai uscito vincitore. Perché allora tutto quest'interesse, quest'ostinazione coltivata per una vita intera?
Semplicemente perché il tedesco era all'epoca la lingua internazionale della scienza e
della cultura, e ancor più perché Twain la
amava, soprattutto, per quanto a noi oggi
possa sembrare strano, come lingua del sentimento e dell'emozione e in quanto espressione di una civiltà attenta alla natura, alla
formazione, alla musica colta. Ma c'è di più:
Twain amava anche quella libertà tedesca
che vedeva espressa nel vocabolario delle
profanities, le irriverenze riferite anche alle
divinità cui non si sottraevano neppure certe
rispettabilissime dame.
Un invito, questo di Twain, a liberarci della postbellica idea del tedesco «lingua in uniforme».