Dal 1851 al 1854 conobbe da vicino questo mondo in fermento un Tolstoj poco più che ventenne, venuto a combattere i separatisti ceceni con l’intento di dare un nuovo inizio ad una esistenza che non lo appagava. Fortemente influenzato dai costumi e dallo stile di vita del popolo cosacco, il giovane Lev meditò di ricavarne un’opera letteraria la cui stesura tuttavia risultò piuttosto tormentata, protraendosi negli anni con varie interruzioni e riprese. Finalmente ciò che, all’inizio era stato concepito come un trattato etnografico e poi come un poemetto, prese nel 1863 la forma attuale di una narrazione in gran parte autobiografica.
La trama in breve. Il protagonista Olènin (alter ego del conte Tolstoj), rampollo di una nobile famiglia pieno di idealità, generoso, ingenuo e impaziente di far valere il suo coraggio, lasciatasi alle spalle la mondanità moscovita, va ad arruolarsi in qualità di allievo ufficiale a Novomlìnsk, villaggio di frontiera dal quale si scorgono le alte cime innevate del Caucaso, roccaforte delle bellicose popolazioni circasse e cecene.
Gradualmente, tra avventure di guerra e di caccia, Olènin viene attratto dalla vita semplice, sana e operosa degli abitanti, in netto contrasto con quella frivola e scioperata che era stata la sua. Inevitabile l’innamoramento con la bella Mar’janka che, benché promessa al giovane Lukaška, quando il giovane ufficiale le si dichiara, sembra accettare la sua proposta di matrimonio.
Durante uno scontro a fuoco tra cosacchi e ceceni al quale egli partecipa come semplice spettatore, il rivale Lukaška viene gravemente ferito. Ritornato al villaggio, Olènin rivede Mar’janka, dalla quale però viene respinto. Purtroppo, nonostante i suoi tentativi, non è riuscito a integrarsi in quel popolo primitivo e istintivo: per tutti è rimasto l’aristocratico che non si capisce bene cosa ci stia a fare lì. Non gli resta che farsi trasferire alla fortezza dov’è lo stato maggiore da cui dipende, il che equivale a lasciarsi riassorbire nella falsità del suo mondo di provenienza. Al momento di accomiatarsi, l’unico a salutarlo con vero rimpianto è il vecchio cacciatore Jeròška, che gli si era sinceramente affezionato.
Tolstoj ci immerge in questo universo cosacco, comunicandoci il proprio entusiasmo sia per le espressioni vitali della gente, sia per le bellezze naturali della steppa. Sèguito ideale di Infanzia, adolescenza, giovinezza, altra sua opera giovanile anch’essa in parte autobiografica (e ugualmente pubblicata da Quodlibet), I cosacchi palpita delle tematiche più care allo scrittore, come quando contrappone città e natura e ravvisa nell’abbraccio con la seconda la possibilità per l’uomo di sublimarsi e aver placata la ricerca febbrile di uno scopo per cui vivere. Senonché l’amaro finale attesta l’impossibilità di raggiungere tale meta: almeno per un inquieto come lui, perennemente diviso tra pesantezze carnali e tensione spirituale.
Ma Tolstoj ci sorprende ancora con un altro romanzo breve maturato nel segreto fino alla tarda vecchiaia e apparso postumo, nel quale ritroviamo gli scenari caucasici dei Cosacchi: è Chadži-Murat, dove l’eroe di turno è un leader di etnia àvara contrario all’annessione russa della sua terra. A considerare il lungo lasso di tempo intercorso fra le due opere, ci aspetteremmo stavolta una rievocazione nostalgica e permeata di poesia. Niente di tutto ciò: la narrazione – sempre scattante, senza voli poetici, realistica (il tipico realismo tolstojano) – ci trasporta di nuovo in quel mondo, come appena lasciato. Ritorno alla freschezza degli anni giovanili, questo tardivo capolavoro è la dimostrazione che, nonostante il ripudio dell’ultimo Tolstoj per la forma romanzesca, idealmente era rimasto in quella regione che sempre più, col trascorrere del tempo, doveva essergli apparsa come una agognata “terra promessa”.