Recensioni / In principio tutti poliglotti

L'oblio nella lingua: dal bambino che smarrisce il naturale talento fonetico all'Alef ebraico di cui più non si conosce il suono
di Elena Loewenthal

Come tutti sanno, i bambini all'inizio non parlano. Eppure si esprimono: la cosiddetta lallazione è una sorta di pre-linguaggio, un puro esercizio di voce apparentemente insensato.
In realtà, il linguista tedesco Roman Jakobson ha dimostrato che insensato non lo è affatto, rappresenta piuttosto una fase cruciale. In un suo saggio scritto fra il 1939 e il 1941 (durante l'esilio in Norvegia e Svezia) lo studioso spiega il fatale transito dal balbettio alla parola: quando si avvicina il momento in cui impara a formare le prime parole, il bambino dispone di straordinarie capacità, e «può accumulare delle articolazioni che non è dato trovare in nessuna lingua particolare». Poi impara a conoscere la propria, che «non tollera l'ombra di un'altra» e gli impone di dimenticare il suo talento fonetico naturale, l'innato «poliglottismo» del suono.
In sostanza, spiega Jacobson e da qui prende le mosse Daniel Heller-Roazen nel suo Ecolalie. Saggio sull'oblio delle lingue (accurata traduzione di Andrea Cavazzini per Quodlibet, pp. 260, euro 24), l'apprendimento della lingua comporta necessariamente un atto di amnesia. Tale approccio di studio conduce su un cammino decisamente interessante. Il fenomeno del linguaggio assume una luce nuova. Soprattutto, la lingua si rivela portatrice di un ruolo attivo, nel suo rapporto con l'umanità: non è più semplicemente «parlata», piuttosto «si fa parlare».
Heller-Roazen, che insegna letteratura comparata a Princeton, affronta diversi casi di «oblio» nella lingua, a testimonianza della sua capacità dinamica di interagire con il soggetto parlante: la cosiddetta «e» instabile del francese, ad esempio. E certamente l'Alef dell'ebraico: consonante primigenia, principio del tutto ma anche distillato della «rivelazione divina ridotta al suo elemento minimale» (ha detto un maestro della tradizione che tutta la dottrina di Dio sta racchiusa nell'Anokhi, cioè «Io», con cui iniziano i comandamenti), la Alef ha perduto il suo suono, non l'ha più e nessuno lo conosce. O forse l'Alef è proprio l'articolazione di quel silenzio di fondo che veglia su tutto il creato?
Chissà. Heller Roazen percorre diversi contesti in cerca di queste dinamiche. Quasi nessuna lingua si estingue per un cataclisma (è capitato allo yiddish, persosi nella Shoah), però tutte sono destinate a morire e, prima ancora, a portare in sé gli echi di altre, già perdute: «Nessuna lingua - nemmeno quella considerata sacra - può sottrarsi alla propria caducità». Emblema di questa mortalità della parola, ma anche del suo talento di vita e rinascita, è la torre di Babele, perché in fondo l'esilio è «la vera patria della parola, e può ben darsi che si possa accedere al segreto di una lingua solo nel preciso istante in cui la si dimentica».