Recensioni / Rabelais. La formazione di parole come strumento stilistico

Si traduce per la prima volta in Italia lo straordinario saggio esordiale sulle neoconiazioni rabelaisiane (1910) del filologo romanzo e campione della critica stilistica — tra linguistica e analisi letteraria — Leo Spitzer (Vienna 1887 - Forte dei Marmi 1960), supremo cacciatore di tratti espressivi e deviazioni dalla norma concepiti quali spie fedeli dello stato psichico e della Weltanschauung dell’autore. Così Davide Colussi nella densa prefazione: «In Spitzer […] aveva agito, in forma di influsso inconsapevole, l’impostazione ermeneutica derivata da Dilthey […], e in particolare il principio in base al quale “la conoscenza si ottiene non soltanto con la progressione graduale da un particolare a un altro particolare, ma con l’anticipazione o divinazione dell’insieme”. Tale principio permette di confidare che le parti dell’opera, anche quando notomizzano sino al più minuto dettaglio, rimandino al senso dell’opera complessiva e che l’opera complessiva rifletta il proprio senso in ogni sua parte, così che il circuito sia percorribile in entrambe le direzioni (dalla parte all’intero e dall’intero alla parte) e continuamente verificabili le posizioni critiche assunte.
All’inconsapevole fiducia nella corrispondenza di parte e intero si combina nel giovane studioso, che la adotta — questa sì — in modo del tutto inconsapevole, l’impostazione fornita dal modello psicoanalitico freudiano, a cui sono ascritti non meno che gli “strumenti necessari” alla pratica concreta d’analisi» (p. 21). Come non pensare all’«auscultazione» continiana del testo come principio ermeneutico, e soprattutto alla sua «critica grammaticale»? Non un generico e scontato tout se tient, nulla a che vedere con la solidarietà delle parti (pur sempre parti) in seno al tutto; ma un sistema dei minimi interpretabili in cui, come nel negativo olografico, tutto contiene tutto il resto; una discesa nella dimensione atomica dell’opera fomentata da un perfetto connubio d’istinto e sapienza, logos e intuizione, in cui il demonstrandum, come avviene nelle scienze esatte, non è mai surrettiziamente impiegato nella demonstratio; un’esplorazione dell’infinitamente piccolo al termine della quale il testo esce mansuefatto, quintessenziato, e tuttavia inviolato nella sua natura di universo aperto e inconcludibile, disposto a ricevere sempre nuove incursioni e a interagire con esse.

La latitudine e la stupefacente profondità della trattazione non consente che di allegare qualche saggio dell’acuzie spitzeriana nel sottoporre ad analisi le formazioni lessicali investite di funzioni artistiche (e non già linguisticamente innovative).

Feroce schernitore del Medioevo e delle sue classi professioni corporazioni, Rabelais ricorre spesso a famiglie di parole sotto il segno del grottesco (che suscita risate dissacranti e il cui «marchio di fabbrica è l’esagerazione. Appartengono dunque a questa categoria tutte quelle mostruosità lessicali che non hanno eguali in una lingua», p. 99). Significativa la costellazione architettata intorno a pape: in ciascuno dei «fastidiosi representative men medievali» (p. 161) lo scrittore ravvisa un pape: papa Niccolò merita di bruciare all’inferno come papetier ‘cartolaio’; papimanes sta per ‘beatitudine come la può promettere il papa’» (p. 162); papefigue è un prestito dall’italiano: Federico Barbarossa aveva punito i milanesi imponendo loro di cavare con la bocca un fico dalle pudende di una mula, dunque «nella fonte italiana i milanesi così puniti venivano chiamati per scherzo pappafichi, espressione che poi Rabelais scompone per i propri fini in pape + figue» (p. 163).

Non meno singolare la formazione per accumulo di suffissi: nel menu delle Dames Lanternes si applicano suffissi reali a radici inesistenti per far credere di nominare vere pietanze: gendarmenoyre ‘gendarmenoria’, ondrespondredetz ‘centolibbretti’ [sic], patissandrye ‘pasticcianderia’, marmitandaille ‘marmittandaglia’ (-and- allunga la parola), petardine ‘petardina’, apopondrilloches ‘apopondrillocche’, merdignon ‘merdignone’, tirapetands ‘tirapetanti’ («da tirepet un sostantivo tirapetader, da cui il verbo tirapetader, da cui poi il participio presente tirapetadans?»); metempsicosi viene violentata in metempsichosie; Egyptiatique anziché egyptiate o egyptique, da egyptiate + ique in analogia con Indique.

Spitzer prende poi in esame le componenti delle coniazioni «chilometriche» o «parole-mostri» (p. 226). Vediamone alcune:
enucidiluculidissima: «Qui abbiamo l’accostamento dell’espressione dotta e nuci (“dimostrare qualcosa e nuci”) e del risultato di tale dimostrazione: diluculum = ‘oscurità’, più -idissima che serve all’allungamento. In un’unica parola è insomma condensata un’intera frase: ‘una dimostrazione e nuci, che però non viene a capo dell’oscurità’. Ma questa analisi così precisa non è ciò a cui Rabelais mira: egli vuole semplicemente farci venire in mente questi concetti senza però che essi debbano organizzarsi in una struttura sintattica, o anche solo in una connessione logica» (p. 231);

rostocostojambedanesse: «Qui si potrebbe facilmente ricostruire la connessione sintattica degli elementi: rôti del côte de jambe d’ânesse ‘arrosto di lato di gamba d’asino’, dove la pedanteria delle specificazioni e la sovrabbondanza di genitivi risulterebbe altrettanto comica. Concentrato tutto in un’unica parola serve a creare un nome di eccessiva lunghezza. La -o- funge da vocale di raccordo come in austro-bongrois ecc.» (p. 231-32).

«Le faguenat des Hespaignols supercoquelicanticqué par frai Inigo»: ancora lessico contro sintassi: anziché dire “il fetore degli spagnoli, perfino superiore in Frai Inigo”, si ricorre a super + coquin (o coquelicot?) +, forse, le ultime due sillabe della città di Alicante, famosa per il suo vino. (p. 232).

Arricchisce il volume il saggio dal titolo La formazione di parole in Balzac, con riguardo ai Contes drolatiques e ad altre opere in cui la formazione di parole come strumento stilistico e il pastiche possono essere ricondotti all’influsso di Rabelais.