«Steinberg è nato
per disegnare come Fred Astaire è
nato per ballare».
Questa frase di Aldo Buzzi accoglie il
visitatore della grande, bellissima mostra dedicata a Saul Steinberg alla Triennale di Milano (fino al 13 marzo 2022) curata da
Marco Belpoliti e Italo Lupi con
Francesca Pellicciari.
Una retrospettiva che è uno degli astri, luminoso e imperdibile, di una vera e propria"costellazione Steinberg" che, insieme al
catalogo enciclopedico e l'altrettanto ricco numero di Riga (la rivista-libro curata sempre da Belpoliti, qui insieme a Gabriele
Gimmelli e Gianluigi Ricuperati, editore Quodlibet), in questi
giorni permette all'appassionato italiano di orientarsi come
non mai nell'universo del grande artista rumeno-italo-americano.
Nella frase del «grande amico»
Buzzi, c'è molto del "mistero
Steinberg", almeno per me: la
perfetta coincidenza tra talento
e opera, quella felicità che trasborda da ogni riga tracciata da
Steinberg, da ogni foglietto
esposto alla mostra, anche nelle
opere più drammatiche, fa sempre pensare che quel tratto non
poteva che essere lì, disteso sulla carta proprio in quel modo e
non in un altro.
Da qui l'impressione che la sua
arte si dia soltanto sotto il segno di una necessità quasi fatale: che Steinberg disegni così è
"naturale" come il fatto che gli
alberi abbiano le foglie, che l'acqua scorra a valle.
Se da una parte è vero, e l'eccitazione di essere davanti a uno
Steinberg viene da qui, dallo
spettacolo numinoso del talento assoluto, dall'altra rischia di
appiattire e nascondere la complessità di uno dei più importanti e influenti artisti del Novecento.
Davvero preziosa quindi l'operazione di Belpoliti e soci di restituirci uno Steinberg «di fronte e
di profilo» (per riprendere un titolo di Belpoliti su Primo Levi).
Seguendola sua ispirazione proverò anch'io a raccontare Steinberg attraverso voci, frasi, lemmi, parole-chiave.
Faccia
«A prima vista l'aria è modesta,
posata, vagamente pedante, da
professore di chimica in un'università americana».
Era fotogenico, Steinberg, penso mentre osservo i ritratti esposti alla Triennale insieme alle
sue opere: i fotografi riuscivano
a valorizzare quella sua bella
faccia curiosa, ironica ma anche impenetrabile come uno di
quei tanti totem, tante maschere che disegnerà nel corso della
sua carriera.
Faccia comunissima, «da professore di chimica», quasi invisibile (dirà a Sergio Zavoli a proposito della vita in America: «Nessuno qui cerca la solitudine; un uomo solo che bisogno ha di nascondersi, a chi si nasconde?»);
ma anche molto plastica e simpatica, velata da improvvise tristezze.
Resto più a lungo davanti a una
sua fotografia del 1978: lui maturo, quasi anziano, che tiene in
mano sé stesso bambino. È una
foto di una malinconia profondissima, di quelle che non arrivano subito ma filtrano nell'osservatore come un incantesimo
man mano che si guarda.
Lo sguardo di Steinberg bambino sembra atterrito, come spaventato dal futuro che gli si spalanca d'improvviso davanti. Come se avesse davanti la visione
del Novecento che l'aspetta.
Steinberg adulto appare rassegnato, forse triste: padre di sé
stesso, come a dire che quella
tragedia che chiamiamo Storia
— o anche solo Vita — l'attraversiamo da soli.
Maschera
«È una stenografia della faccia.
Il risultato, l'identificazione della faccia, il suo totem».
Nato nel 1914 a Râmnicu Sârat
(«un paese inventato per me»),
Saul passa l'infanzia a Bucarest.
Dopo un anno a studiare filosofia, nel 1933 si trasferisce a Milano dove si iscrive ad Architettura. Qui incontra Buzzi, amico,
editor, confidente di una vita, e
l'altro amico di una vita Alberto
Lattuada, inizia a pubblicare le
prime vignette umoristiche sul
Bertoldo di Zavattini, sodale e
primo scopritore.
Al Bertoldo collabora anche un
giovane Italo Calvino che nel
tempo diventerà ammiratore
dell'opera di Steinberg. Poi le leggi razziali, sei giorni nelle carceri di San Vittore, il confino nel
campo di Tortoreto, in Abruzzo,
la partenza per gli Stati Uniti, dove si arruola in Marina e da lì, oltre a disegnare per l'intelligence
le illustrazioni di un falso gruppo sovversivo tedesco, invia al
New Yorker autentici reportage
disegnati dal fronte del Pacifico
e poi dall'Europa e dall'Italia.
New Yorker
«Non appartengo propriamente né al mondo dell'arte, né a
quello dei comics, e nemmeno a
quelle delle riviste, perciò il
mondo dell'arte non sa bene dove piazzarmi».
Come scrive Ricuperati nel catalogo, «non si può dire chi sia nato prima, nell'immaginario almeno (nella "cronologia" lo sappiamo benissimo)» se Steinberg
o il New Yorker, tanto è stata fitta la collaborazione con la rivista, tanto è stata profonda l'impronta che ha lasciato sul giornale, di fatto definendone molta parte dell'identità, dagli anni
Cinquanta fino alla morte nel
1999.
Steinberg è stato uno degli artisti più visti e (forse) meno conosciuti. Difficile non essere anche solo incappati in qualche
suo disegno, vignetta, ghirigoro, copertina proveniente dal
New Yorker. Steinberg non accetta commissioni da parte del
giornale. Lui disegna, poi gli editor passano nel suo studio e
prendono i disegni che vogliono: «L'unico criterio è che io li abbia capiti. Ma a volte hanno pubblicato qualche disegno che
neanch'io avevo capito».
Per qualche tempo questa intensa attività editoriale costringe
la ricezione di Steinberg nel novero degli autori di comics: «Solo perché è pubblicato su una rivista pensano che faccia ridere».
Il fatto è che fu sempre un artista indefinibile, impossibile da
inquadrare, ma soprattutto impossibile da museificare. Forse
disegnava perché il disegno è
un'arte veloce, in cui la matita a
volte va più lesta del pensiero,
di certo la sua era più veloce di
ogni magniloquenza.
Sarà stata la giovinezza passata
nell'Italia mussoliniana, ma
per lui la pomposità in ogni sua
forma era un bersaglio irresistibile.
«Io non mi sono mai preoccupato di un individuo solo, una caratteristica individuale, ma di
qualcosa che rappresentasse
questo individuo come elemento»: di nuovo le maschere che ci
nascondono — e in qualche modo ci preservano — ma che sono
anche l'immagine dell'ipocrisia della società contemporanea.
Scrittura
«Sono uno scrittore che non sa
scrivere». «Parlo sei lingue e nessuna correttamente. La linea —
diciamo la grafologia — è la mia
vera lingua».
Ma non è solo per questa lunga
fedeltà al New Yorker che Steinberg viene considerato tra i più
letterari degli artisti visivi. La
penna in prima persona è il titolo
di uno dei due saggi che Italo
Calvino ha scritto su Steinberg.
Non è un caso che allo scrittore
di Sanremo interessi l'opera di
Steinberg, un artista costantemente in equilibrio tra pensiero-immagine-parola, affascinato dalle figure del labirinto, del
ghirigoro, dalle dimensioni
molteplici, dall'intreccio di linee che, come i rami attraversati dal Barone rampante, connettono il mondo ma rischiano anche di intrappolare.
«Calvino mette in luce tra i primi — scrive Belpoliti — la natura
metalinguistica del disegno
dell'artista, che parla quasi sempre di sé stesso, e nel contempo
del "sé" che lo disegna. Ê anche
una possibilità per l'uomo stesso — il disegnatore disegnato —
di essere "padrone di sé", pur non
riuscendo a evadere dalla propria condizione di prigioniero».
Fino al punto di tenere per mano il sé stesso bambino, come dire possedere la propria storia, il
proprio racconto, conchiudersi
al punto da vedersi dall'esterno,
come fuori dal tempo. Eppure,
lo stesso, non fuggire alla malinconia.
È la «sfida del labirinto», come la
definiva appunto Calvino: questa consapevolezza di sé, un'vedersi vedersi" la cui lucidità però non porta necessariamente
all'emancipazione, è il distillato
più puro di ciò che ci ha lasciato
il Novecento.
Un'eredità enorme, mi dico
uscendo dalla mostra in Triennale, chissà quanto divenuta ormai merce comune, anzi forma
della vita di chiunque nel tempo dei social e del nostro costante autoracconto; oppure è un'eredità completamente dimenticata dal momento che questo
autoracconto è totalmente acefalo, inconsapevole, incatenante?
Non lo so. Quello che so è che,
per parafrasare Borges quando
in una poesia scriveva di essere
contento che sulla Terra ci fosse
stato Stevenson, io sono contento che sulla Terra ci sia stato
Saul Steinberg.