Erano poco più che due ragazzi, Eugenio
Montale e Sergio Solini, quando una
sera del 1917, grazie a un amico comune, si conobbero in una modesta latteria di Parma. Ventun anni il primo, non ancora
diciottenne il secondo, ambedue allievi ufficiali di fanteria, ambedue in attesa di essere richiamati al fronte, ambedue poeti in erba, di lì
a poco avrebbero iniziato un'amicizia tra le più
durature e feconde del Novecento letterario.
Amicizia, colma di «intesa e complicità istintive», testimoniata da un imponente scambio
epistolare che si estende fino al 7 luglio 1980 e
che ora viene pubblicato (Ciò che è nostro non
ci sarà tolto mai, Quodlibet) per le intelligenti
cure di Francesca D'Alessandro, nel quarantesimo della morte dei due poeti (Montale morì
il 12 settembre 1981 a Milano, Solini poche settimane dopo, il 7 ottobre, sempre a Milano).
Sono 338 le lettere conservate: le 237 montaliane e 61 di quelle firmate da Solmi si trovano alla Fondazione Sapegno di Morgex; a queste ultime vanno aggiunte le 38 (più una cartolina) che lo stesso Solini donò a Maria Corti e
che si conservano nel Centro Manoscritti di
Pavia.
Lasciata Parma, Eugenio e Sergio cominceranno a scriversi a partire dal 28 febbraio 1918,
dalle rispettive zone di guerra, per Montale il
fronte trentino, per Solmi il Trevigiano sul
Piave, dando avvio a un intenso andirivieni di
composizioni poetiche prima di ritrovarsi a
Torino nell'immediata conclusione del conflitto e in attesa del congedo definitivo, pur
sempre lamentando reciprocamente «questa
porca vitaccia in grigio-verde». Rientrato a Genova, dove ripiomba nella quotidianità asfittica privo di un baricentro lavorativo, «non senza un po' di. rossore» Montale invia al carissimo amico la sua Suonatina al pianoforte. Il
tentativo, scrive, è quello di sposare «unità discorsiva, tono parlato, intimità etc. etc.» con
«un pizzico di umanesimo e di castità formale». E implora un «severo parere». Alle prese
controvoglia con lo studio giuridico, Solmi. risponde mandando una prosa scritta al fronte,
Cadore, «paesaggio-stato d'animo» in cui si
respira, a detta dell'autore, «un attimo di gioiosa eternità in chiaro tramonto di montagna». E l'altro reagisce dicendo tutta la sua stima per quella «cosa compiutamente bella» e
confessando di sentirsi attratto all'arte per
un'esigenza «d'indole essenzialmente etica
più che estetica». E sempre Montale a confidare le proprie malinconie: «Sono un ingenuo
complicato (...); sono un timido e un sentimentale, uno scettico pieno di vuoto; sono un
vecchissimo fanciullo». Si considera sempre
«in filo di rasoio: né letterato né uomo pratico» e lamenta di essere percepito «borghese
tra gli artisti, artista fra i borghesi» nel piccolo
ambiente genovese.
Le lettere, che si infittiscono tra il 1925 e il
1933, ci raccontano le vicende e gli intrecci di
molte riviste («Pegaso», «Solarla», «Convegno», «Illustrazione Italiana», «Letteratura»,
«Cultura»...), tra cui «Primo Tempo», che Solmi fonda a Torino nel 1922 con l'amico di sempre (e per sempre) Giacomo Debenedetti, non
necessariamente consentaneo con lui sul piano critico («è un giovine di molto ingegno e
cultura, ma molto lontano da me per aspirazioni e per educazione»). Infornato dell'iniziativa, che per la poesia può già contare su
Camillo Sbarbaro e in ambito saggistico su
Giovanni Gentile, su Adriano Tilgher, su Giuseppe Prezzolini, il 15 aprile Montale, afflitto
da «nervi deboli» e insonnie, invia una poesia
(«Riviere con qualche ritocco»). E però precisa che l'opera di Gentile l'ha sedotto al più per
un paio di settimane e che i suoi seguaci lo
fanno «ridere a crepapelle». Non sopporta
l'idealismo e anzi continua «a star fuori delle
classificazioni, delle scuole, delle fedi». Anche
per questo dichiara la sua «stima illimitata»
per Emilio Cecchi e confida nel ruolo di Sergio
nella redazione della rivista.
Seguiranno altri invii e scambi, tra cui un
saggio di Solmi su Govoni nel quale l'amico
coglie una complicità e un'affinità di gusti. A
unirli c'è anche il sistema nervoso: quello di
Sergio, stabilitosi a Milano in qualità di apprendista avvocato dal luglio 1923 con una laurea in Diritto romano, è «assai sconquassato»,
mentre l'entrata inscena del triestino Roberto
Bazlen, calato a Genova per motivi di lavoro,
porta all'amico una ventata di vitalità. Da Bobi
nell'inverno 1923 Montale sentirà per la prima
volta parlare di Italo Svevo, su cui Eugenio-Eusebio-Eusebius si schermisce ma non troppo
come primo scopritore (e promotore) italiano:
«Io conoscevo, è vero, la stima d.i. Joyce per lo
Svevo, ma ignoravo il futuro lanciamento, e
sparavo le mie poche cartucce tutto solo, senza preveder troppo arguti forestieri, e rischiando quindi la figura del fesso». E pronto
ad ammettere il primato dei francesi, semmai
si scaglia contro i detrattori e stroncatori italiani, come il critico del «Corriere» Giulio Capiti. Nell'agosto 1926, Solmi lo informa di aver
visto a colazione Svevo di passaggio a Milano
(«E davvero una persona simpatica, e assai
modesta») e di aver incassato il rifiuto di Treves a pubblicarlo. Di rimando Montale propone il suo amaro referto: «Mi pare uomo in tutto degno dei tempi migliori; e mi fa pena vederlo muoversi nella pattumiera letteraria milanese. Io, nel suo caso, mi pagherei di mia
tasca una buona traduz. francese, rinunciando
per ora ad altra ediz. italiana».
Le lettere registrano anche la genesi degli
Ossi di seppia, la cui pubblicazione, considerata la crisi di «Primo Tempo», viene dirottata
verso le edizioni di Piero Gobetti, grazie ai
buoni uffici di Solmi: «Io sono in abbastanza
buoni rapporti con lui, e l'ho visto anche ultimamente qui a Milano — e potrei scrivergli
raccomandandoti a lui. Se la cosa si combina,
come è facile, non avrai da lamentarti». A fine
maggio 1924 Solmi, ricevuto il plico, esprime
la sua ammirazione all'amico poeta, riconosciuto come «uno dei pochissimi che hanno
saputo dire se stessi». li io luglio il manoscritto passa dalle mani di Solmi a quelle di Gobetti, durante un incontro milanese che ha anche
un significato politico a poche settimane dai
delitto Matteotti. (ne nascerà per Solmi l'esperienza di «Rivoluzione liberale»). Il consenso
dell'editore non tarda ad arrivare, anche se all'autore viene chiesto un contributo di almeno
duecento prenotazioni. Montale si dà da fare a
distribuire le cedole coinvolgendo nella raccolta, tra gli altri, Bazlen, Debenedetti. e l'amico poeta ligure Angelo Barile: con successo, visto che in marzo i numeri supereranno di parecchio la soglia richiesta.
La raccolta d'esordio montaliana, una delle
più importanti del Novecento, potrà così vedere la luce. Non senza penose vicissitudini tipografiche nella trafila tra le prime e le seconde
bozze. Dopo l'uscita, i primi di luglio, Solmi.
dovrà sollecitare l'amico per entrare in possesso della sua copia, e quando la riceve non gli
risparmia le sue acute osservazioni: «La veste
è un po' povera, e mi rincresce degli errori di
stampa. Ad ogni modo è fatta e non c'è da
rammaricarsene. Mi sembra che tu l'abbia un
poco smilzito [sic]: Accordi, Musica silenziosa, e le altre liriche senza titolo del genere "fine dell'infanzia" che avevo lette manoscritte
mi sembrava potessero esservi accolte senza
timore di dispersione. Del resto la vittoria è
sempre di chi sa limitarsi». Con qualche osservazione critica: «Dunque mi sembra che
l'effetto lirico sia meglio raggiunto quanto meno la visione si tritura facendosi prosastica e
descrittiva, e quando si libra in ampi stacchi
sospesi (...)».
Per chi volesse„ci sono poi i vari passaggi
che portano alla seconda edizione degli Ossi
con la testimoni a di un intenso lavoro correttorio, aggiunte e varianti comunicate a Salmi e persino a volte concordate con lui. Il 17
agosto 1926 gli manda La foce (poi divenuta
Incontro), che evoca il fantasma di Arletta, la
ragazza frequentata per qualche estate a Monterosso. Con la solita raccomandazione autoriduttiva: «Se ti pare una gran porcheria, come
temo, fammi il grande favore di dirmelo. Te ne
sarò grato». La risposta arriva il 3 settembre,
ed è sempre particolarmente arguta: «L'intonazione sacrificata e sotterranea della tua lirica comincia a distendersi, a trovare qualche
gioia meno chiusa e trepida, e più consapevole». Montale dovrà aspettare il dicembre 1927
per avere la sospirata introduzione di Alfredo
Gargiulo («Alleluja! Avevo quasi persa la speranza») e il gennaio seguente per vedere la prima copia ciel volumetto color ruggine pubblicato dalle edizioni torinesi Fratelli Ribet.
Naturalmente, spesso le parti si invertono.
Anche Solmi, oltre che saggista e critico (soprattutto di area francese, ma anche su Leopardi e sul Novecento italiano), è un poeta,
probabilmente influenzato dallo stesso Montale, il quale a sua volta avrà percepito e metabolizzato l'impegno civile e morale dell'amico.
Il 5 gennaio 1937 è Montale a sollecitargli un
invio («so che hai fatto altre poesie»), con la
promessa di coinvolgere Alessandro Bonsanti,
direttore di «Letteratura». Prosegue Montale:
«Io ne ho scritto 23 in n anni e alcune devono
essere anche brutte assai; quando ne avrò una
quarantina farò il mio 2° e ultimo libro».
Quando arriveranno Le occasioni, il 16 aprile
1940 nel ringraziare Sergio per la recensione,
Eugenio aggiunge una punta polemica su Alfredo Gargiulo, poco convinto della seconda
raccolta: «A parte le balle sui valori fonici e la
prosa e l'oscurità (da parte di chi non trovò
nessuna oscurità in Ungaretti), anche lui come
Contini scava il fosso fra i due libri; la differenza è che dice di no alle Occasioni mentre Contini diceva no agli Ossi». Non dimentichiamo
che i due amici, com'è buona regola da sempre
in quella che si chiama società letteraria, non
risparmiano le malignità: sull'amico comune
Giacomino, «non disposto ad accettar riserve» sulle sue cose; sul buon Saba, che «vuole
essere esaltato» e reagisce a una recensione di
Montale con una lettera d'insulti...
Un'appendice di prose inedite e ritrovate, a
cura di Letizia Rossi, meriterebbe un discorso
a sé: sono recensioni, interventi critici, brevi
pezzi usciti in forma anonima o con pseudonimo, che ora, sulla base delle lettere, vengono
attribuiti con certezza a Montale e a Solmi.