Recensioni / Donne, giganti e pensionati io canto

Amoroldo: «Non pensa a niente e scalcia». Lurcone: «Fa roteare i morti». Balisardo: «Prende lavori in appalto». Scardasso: «Povero di leucociti». E poi ci sono Marfusto, Peloro, Oronte e decine di altri esseri abnormi nella Storia naturale dei giganti che torna in libreria dopo quattordici anni. Il romanzo di Ermanno Cavazzoni segue le gesta di un anonimo studioso che mentre lavora al bizzarro trattato del titolo si innamora dì una fanciulla e impazzisce di gelosia, proprio come in un poema cavalleresco. Mirabile esempio di pastiche come già altri romanzi dello scrittore emiliano, da Vite brevi di idioti a Gli eremiti del deserto, la riedizione esce come centesimo titolo della collana Compagnia Extra di Quodlibet, diretta dallo stesso Cavazzoni: «Gianni Celati e io, insieme a Jean Talon, volevamo pubblicare gli autori che sentivamo vicini: Malerba, Manganelli, Michaux» dice lo scrittore. «E poi classici come Kafka, Flaubert. Ma il primo fu la sceneggiatura di Il viaggio di Mastorna, il film che Federico Fellini non riuscì mai a fare: a leggerlo è uno dei romanzi più belli del Novecento italiano». Nato a Reggio Emilia nel 1947, Cavazzoni è autore di quel Poema dei lunatici da cui nel 1990 proprio Fellini trasse il suo ultimo film, La voce della luna.
Nella sua storia compare anche un circolo di amici degli alieni. Cosa c'entrano con il resto?
«E una piccola parodia del mondo politico: c'è un circolo che aspetta l'avvento di qualcosa o qualcuno, una promessa che è facile sentire come una piccola truffa. E poi mi ispiro a una cosa che mi è capitata davvero: a diciannove anni ero uno studente in lotta, ho fatto un comizio insieme a Pietro Ingrao. Dovevo dire poche frasi ma lette le prime parole sono svenuto. Penso che lì cominciò il crollo del mondo comunista, fu la prima crepa nel Muro di Berlino».

La sua che famiglia era?
«Borghese. Mia nonna era di origine ebraica, furono sfiorati dalla tragedia delle persecuzioni. Una carissima zia mi dava da leggere i romanzi degli anni Venti e Trenta. Mi sono laureato con Luciano Anceschi a Bologna e a un certo punto mi son messo a scrivere cose di invenzione, fino al Poema dei lunatici e all'incontro con Fellini».

Come avvenne?
«Aveva visto una mia foto con i capelli mossi dal vento. Mi raccontò che l'aveva colpito perché pativa molto la sua calvizie. Andò a comprare il libro e cominciò a leggerlo dall'ultima pagina. Poi mi telefonò che non erano neanche le sette di mattina. Siamo diventati amici, per due anni abbiamo girato l'Emilia insieme. Mi ha insegnato tanto. Il Poema lo aveva colpito, perché comincia con uno che sente una voce che lo chiama da un pozzo: è un piccolo mito, come se il fondo dei pozzi fosse abitato. Fellini è tutto costellato di queste cose».

ééIl magico, il fatato unisce un po' tutti voi artisti emiliani...
«Ci lega la parlata. La lingua è sempre un po' spirito, ed è uno spirito tendente al comico, ridere scherzosamente e mai in forma aggressiva. Tutti i film di Fellini sono leggermente comici. Pensiamo alla scena della Fontana dì Trevi nella Dolce Vita. Sembra una scena lirica: ma a un certo punto la fontana si spegne, arriva uno in bicicletta e questi due innamorati in realtà sono due coglioni che si trovano lì con i piedi nell'acqua. Tutto il lirico diventa buffo».

Lei parla spesso di idioti, ladri, falsari. Fino agli Scrittori inutili, a cui ha dedicato un libro intero...
«Tra gli scrittori inutili mi annovero anch'io. Una volta ero a una fiera del libro in Messico, con l'Italia come Paese ospite. Notai che quando gli italiani si sedevano a mangiare il capotavola era sempre lo scrittore che vendeva di più e aveva la moglie più alta e bella; poi via via a calare fino alla parte opposta, dov'era quello che vendeva meno e aveva la moglie bassa e infelice. Era un ordine naturale».

Ma dove nasce questo interesse per i reietti e i dementi?
«E molto più interessante il personaggio anomalo. Tutti i libri di narrativa più riusciti pescano nel mondo dell'anomalia mentale: Zeno di Svevo, il Mattia Pascal di Pirandello, il Serpente di Malerba...».


Nel libro c'è un tasso molto alto di pensionati: una sua ossessione?
«Ho sempre pensato che spie ed extraterresti in missione dovrebbero travestirsi da pensionati o turisti: sono due categorie umane che non fanno niente e però circolano».

Lei ricicla la lingua. Ha dichiarato di amare il burocratese.
«Il burocratese è una fonte letteraria stupenda, così come i gerghi medici, sono bellissime riserve linguistiche. L'effetto comico è molto facile: se faccio alla mia fidanzata una dichiarazione in burocratese fa ridere subito. Come in Gli asparagi e l'immortalità dell'anima/i> di Achille Campanile, dove "anima", parola del registro teologico, è messa accanto agli asparagi, il registro della massaia».

Anche la sua Storia dei giganti è un libro di umorismo puro, o no?**
«E una comicità leggera, spalmata, la stessa che viene da Pulci, Boiardo, Ariosto... I poemi cavallereschi europei, come la Chanson de Roland, parlano del grande scontro tra cristianesimo e Islam. Ma quando arrivano in Italia sono già poemi buffi: in Pulci i cavalieri sono piccoli maniaci che inseguono le donne, e il protagonista è Morgante, un gigante che fa ridere perché quando cade li schiaccia tutti. Del resto già nel Decameron i frati scopano, le mogli tradiscono, il tutto allegramente. La comicità leggera è il gusto più autenticamente italiano. I promessi sposi è un romanzo morale, serio, ma il personaggio principale, Don Abbondio, sembra uno dei caratteri di Alberto Sordi. È un prete che non crede alla religione. E già commedia all'italiana».