Poco più di cento anni fa, nella notte tra
i14 e il 5 aprile del
1921, la storia di Ellen West si concluse
con il suicidio, dopo
un peggioramento
della sua condizione psichica, lacerata tra l'idea
fissa di non ingrassare e il pensiero ossessivo del cibo. Antonella Moscati ne ricostruisce
la storia in Ellen West. Una vita
indegna di essere vissuta (Quodlibet pp. 160, €15,00). Nata negli Stati Uniti in una famiglia
benestante ebraica sul finire
degli anni Ottanta del XIX secolo e trasferitasi in Germania
all'inizio del XX, Ellen è parte
delle «tante figure di casi clinici... dai nomi monchi o inventati» che — scrive l'autrice — «si
librano sui vaghi confini che
dividono il piano della realtà
da quello dell'immaginazione, e quanto più approfondiamo la lettura, tanto più sembrano diventare immaginarie
come personaggi di romanzi».
Questa impressione è ridimensionata, per il caso West, dalla
pubblicazione nel 2007 dei
suoi scritti diaristici, narrativi
e poetici (Ellen West, Gedichte,
Prosatexte, Tagehikher, Krankengeschichte, Asanger), che contribuiscono a rafforzare il volto
reale di una figura la cui notorietà resta affidata a uno pseudonimo. Si insinua, qui, il primo dubbio etico, che innescherà poi, nel corso del testo,
una interrogazione sulla deontologia, sul metodo e sulle categorie teoriche dei terapeuti: è
giusto mantenere nell'anonimato, senza riconoscerne lo
statuto di autrice, oltre che di
caso clinico, una donna che ha
trovato una forma di soggettivazione della propria malattia
nella scrittura letteraria? Che
si sappia di lei «come di un'altra, come se fosse un'altra»?
L'interrogativo spinge Antonella Moscati a riscrivere il caso clinico di West intrecciando le scarse fonti a disposizione: gli scritti di Ellen stessa, i
diari di suo marito Karl e soprattutto il testo del Caso Ellen
West, di Ludwig Binswanger,
ultimo psichiatra ad averla
avuta in cura e direttore della
clinica svizzera di Kreuzlingen, dalla quale la giovane
donna uscirà pochi giorni prima della morte in uno stato di
completa prostrazione psichica. Di quest'ultimo testo, dalle
vicende editoriali complesse
ma di cui oggi leggiamo in italiano l'edizione Einaudi
(2011), Moscati conduce una
critica metodologica serrata,
il cui obiettivo polemico principale sta nell'uso terapeutico
della Daseinsanalyse, ispirata alla filosofia esistenzialista di
Heidegger. Secondo l'autrice,
l'analisi condotta da Binswagner è non solo inefficace, ma
«anti-terapeutica», poiché a
causa di una gestione inadeguata della relazione con la paziente (e dunque dei processi
di transfert e controtransfert)
avrebbe corroborato l'associazione tra corporeità e colpa
morale al centro dei pensieri
ossessivi di EllenWest (così come di molte altre anoressie).
L'errore terapeutico è doppio: da un lato non si diagnostica la specificità dell'anoressia,
già riconosciuta nel campo psichiatrico ; dall'altro l'ispirazione filosofica esistenzialista si
rivela esiziale, perché la prospettiva ontologica spinge
Bingswagen a fornire «un'interpretazione delle malattie
mentali ... come modi esistenziali strutturalmente deficienti» e a sciogliere indebitamente la «relazione tra psiche e corpo che Freud ha costruito intorno alla nozione di inconscio». Così Ellen trova una sorta di autorizzazione alla morte proprio nella figura del terapeuta e in Karl, il marito, forse
convinto dallo psichiatra stesso della inevitabilità e anzi
dell'«autenticità» esistenziale
dell'atto suicida.
Reinterpretando un caso di
patente errore terapeutico nel
passato, Antonella Moscati, oltre ad avere l'occasione di discutere la categoria di anoressia aggiornata alle teorie contemporanee e a dare una qualche forma di «giustizia» a Ellen
West, sembra ribadire l'importanza di una prospettiva clinica libera da sovrainterpretazioni moralistiche e prescrittive: «non c'è deficienza ontologica ... nelle patologie in generale, e tanto meno nel caso delle patologie psichiche». Un monito che, dopo l'«invenzione»
della psicoanalisi, dovrebbe
apparire anacronistico, ma
che forse nel dibattito contemporaneo non lo è.