«Faccia attenzione a quei
gradini», mi
avverte Rem
Koolhaas - 77
anni, un metro
e novanta, giaccone e berretto da
marinaio - comparendo dall'alto di
una rampa della Fondazione Prada
a Milano, dove sono appena inciampato rumorosamente. Mi viene in mente Flaubert - «gli architetti dimenticano sempre la scala»
- mentre ci accomodiamo nella biblioteca dell'ex distilleria da lui trasformata in tempio dell'arte. Ma
non siamo qui per parlare di dettagli architettonici, bensì di città. O
meglio, di «non-più-città», come
recita il titolo del suo nuovo libro,
un'antologia di brevi testi redatti
tra 111985e 112014, cioè dopo Delirious New York (1978), best-seller
dedicato al Manhattanismo, ormai
preistoria urbana. «Sono frammenti, o dettagli - ci spiega l'olandese, che cominciò come giornalista e sceneggiatore - da cui ho potuto creare una sorta di sintesi poi
confluita in altri scritti; materiale
grezzo con cui dare forma a un più
ampio progetto sulla città».
Ecco la tesi che cuce insieme i
saggi su Atlanta, Singapore, Dubai,
Lille, Tokyo, Mosca, Rotterdam e
Parigi: oggi la città come tale non
esiste più perché «è stata stravolta
e ampliata come mai nel passato,
ogni tipo di insistenza su una sua
condizione primigenia ha come
esito inevitabile, complice la nostalgia, quello dell'irrilevanza».
Nel libro è descritto un momento fondativo: Rem decide di diventare architetto nel 1956, a 11 anni, folgorato dalle immagini di Brasilia - città figlia dell'utopia modernista - sulle pagine di «Time
Magazine». Sessantacinque anni e
centinaia di progetti dopo, si sente
responsabile o solo osservatore
dell'evoluzione della città da sogno
progettabile a «non-più-città»?
«Ovviamente un simile cambiamento è stato causato da un'enorme quantità di fattori, di cui in qualche modo gli architetti sono stati
marginali; e anche in questa misura
hanno sottovalutato in maniera
profonda quali erano le vere forze
in campo. Ciò è evidente guardando
indietro di 5o anni: in maniera sistematica, ogni ambizione di pensare la città e considerarla come un
tutto organico è stata smantellata e
screditata». I testi, ben introdotti da un saggio di Manuel Orazi, insistono sulla scomparsa dell'urbanistica. Siamo in uno stato di crisi o di
potenzialità? «Non credo sia una
crisi; piuttosto il riconoscimento
che la città non può più essere concepita e considerata come un oggetto confinato, come un artefatto.
Ha cambiato la sua natura in maniera radicale. In Asia, in America;
se si guarda bene anche in Europa.
Sono stati cambiamenti autentici,
che hanno implicato la fine di un
vecchio modello».
Koolhaas si è formato negli
anni Settanta, quando le riflessioni
sul superamento dell'urbanistica
moderna erano all'ordine del giorno: Ceci n'est pas une ville, scriveva
Manfredo Tafuri, usando la pipa di
Magritte per commentare le visioni
dichi-vedi Aldo Rossi - cercava sostituti al determinismo urbano. Ma
l'attenzione di Koolhaas si diresse
altrove. «Negli anni Ottanta pochissime persone compresero che
i canoni occidentali non sarebbero
più stati quelli dominanti». Da qui
l'idea di studiare «il declino dell'influenza dell'Occidente nella formulazione della città, iniziando a
fare ipotesi sulla natura delle modernità non-occidentali, che determineranno questo secolo». Peccato
dunque che manchi un testo su Lagos, in Nigeria, analizzata con gli
studenti di Harvard dalla fine degli
anni Novanta. Perché? «Allora era
una città quasi inaccessibile, pericolosa ed evitata da tutti. Eravamo
come pionieri. Ci siamo interrogati
su come possa andare avanti l'urbanistica in assenza dello Stato. Ma
sorsero anche delle critiche, perché
avevamo esplorato la città da un
elicottero: mi accusarono di un distacco dal terreno da uomo bianco.
Quegli ostacoli mi hanno impedito
di scrivere su Lagos, ma forse oggi
è arrivato il momento per farlo».
Come affronta le città di cui scrive?
C'è un metodo? «Ci sono differenti
categorie di curiosità e diverse tematiche che mi piace affrontare, in
modo da non ricondurre tutto all'architettura. Per me questa apertura è tonificante, anche dal punto
di vista retorico».
Parliamo delle nuove forme
di città oggi teorizzate. Nel libro
critica il concetto di «Smart City»:
sia la sua retorica («i cittadini della
Smart City vengono trattati come
bambini») sia l'idea di una tecnologia sostitutiva dell'uomo, come
- l'automobile che sa tutto («preferisco che la mia macchina non diventi un'aula di tribunale»). Che
cosa la preoccupa? «Il modo in cui
Internet è utilizzato, con tuttiquesti domini che cominciano a intersecarsi, in modo pericoloso: la
mancanza di privacy, il concetto di
prevedibilità, l'algoritmo come
norma... ci sta uccidendo». E sul
fronte della sostenibilità, il mito
della città verde? «È un settore
molto importante. Sono convinto
che tutto debba cambiare in modo
radicale e veloce. Come architetti
eravamo abituati a collaborare soprattutto con ingegneri strutturali,
ma oggi lavoriamo sempre di più
con gli ingegneri dei servizi, con
chi si occupa della fisica degli edifici. Abbiamo scoperto che si possono ottenere risultati molto stimolanti. Però non userei il termine
green; è piuttosto un discorso sulla
carbon neutrality, oltre la retorica».
L'ultimo scritto è dedicato al
Countryside, su cui Koolhaas ha curato una mostra a inizio 202o aNew
York, profetica nel sottolineare -
poco prima dei lockdown urbani -
le potenzialità di una campagna ormai digitale e automatizzata. Che
effetti ha avuto la pandemia sulla
città? «La pandemiaha permesso di
lavorare in posti diversi, e in questo
senso ha portato a un'emancipazione della periferia e allo stesso
tempo della campagna, grazie a una
combinazione di giovani generazioni che amano vivere di agricoltura e di chi pensa ormai chela città
non sia più una «macchina» essenziale, o che la propria presenza in
quella macchina non sia più fondamentale. Non credo che ci sarà un
movimento al contrario, un ritorno
in città. Questo è ciò che vedo. In sostanza, cose positive».