Recensioni / I muri che uniscono e quelli che indignano

È innocente, il muro. Non c'è niente di più bello del muro, quando è casa. Ci sono i muri affrescati da Giotto, i muricomunità nel refettorio, nei chiostri e nel porticato-terrazza che si apre come una grande muraglia sulla vallata di Assisi, sui prati e le colline, sui muri a secco che non dividono ma uniscono l'ulivo, la vite e il grano, e sono orientamento e paesaggio. E vero che sono violenti e lugubri i muri che opprimono il mondo, in Cisgiordania, in Africa, in Grecia, in Macedonia, tra poco anche in Polonia. Seimila muri della vergogna negli ultimi dieci anni hanno sigillato popoli che prima i confini avvicinavano, muri che non sono metafore, anche se ciascuno è diverso nei materiali e nell'altezza. E impossibile non indignarsi dinanzi ai due recinti paralleli alti 4 metri e lunghi 175 chilometri che, tra Serbia e Ungheria, respingono con scariche elettriche i migranti in cerca d'Europa. Perciò è bene non distrarsi mai e aggiornare la terribile geografia di Tim Marshall (I muri che dividono il mondo,Garzanti 2018). Bisogna combattere per abbatterli, come le mura di Gerico o il muro dell'inimicizia aggredito da Gesù o i muri dell'avidità nella parabola del ricco che perse la vita per murare il grano, proprio come fu poi murata la monaca di Monza. Ma quando il Papa a Cipro ha detto che la Chiesa non ha muri e, come i Pink Floyd, abbatterà i muri, ha fatto violenza, nella foga, ai muri della Casa Santa di Loreto (la festa è venerdì prossimo), e al Muro del Pianto che, venerato non solo dagli ebrei ma anche dai musulmani e dai cristiani, è il muro che resiste. Persino il fucilato cerca l'ultimo conforto nel muro cui dà le spalle come racconta Sartre (Il muro, 1947): «Gli ordineranno: `Puntate!' E io vedrò gli otto fucili spianati sudi me. Penso che vorrò rientrare nel muro, spingerò il muro con la schiena con tutte le mie forze e il muro resisterà, come negli incubi». La verità è che il mondo senza muri è il mondo senza vita, di ghiaccio in Antartide, di sabbia nel Sahara. Bastano acqua e muri e lo spazio diventa luogo, 4 muri per ritrovarci invece di perderci, muri abitati come nei castelli scozzesi, e muri per torturarci: «Uscirai da qui quando troverai il quinto angolo» dicevano gli sgherri di Stalin. Lo rievoca Izrail' Metter in quel capolavoro (Il quinto angolo, Einaudi) che meglio di tutti racconta i muri del comunismo. Sono quattro angoli e cinque muri, compreso il soffitto, che è la quinta parete, piatta come i tetti di Le Corbousier che li copiò dalle case bianche del Mediterraneo, piatti per alzare al cielo i giardini pensili come a Babilonia, muri che respirano come quelli di Elon Musk: ogni mattone un pannello e la città diventa "solar farm". Il muro, tutti i muri, anche quello che divideva Berlino, sostiene Rem Koolhaas (Testi sulla (non più) città, Quodlibet 2021), non sono costruzioni, ma "situazioni". Sono "decisioni". Di vita e di morte.

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