Recensioni / Non bastava la musica jazz a sconfiggere il razzismo

Louis Armstrong è stato la prima popstar globale. Uno dei suoi soprannomi era Pops ("nonno"). L'altro Satchmo. La prima volta che venne a Roma, nel 1949, un gruppetto di giovani jazzisti di inclinazione "trad" lo accolse all'aeroporto scortando la macchina con vespe e lambrette fino in città. Il giorno dopo suonò con loro, la Roman New Orleans jazz band. Al ristorante il fotografo scattò l'iconica foto davanti al piatto ricolmo di spaghetti. Lui si sentì un po' più giovane.
Proprio in Italia, in arrivo da Parigi a Spoleto dieci anni dopo, il cuore cominciò a cedergli, fu ricoverato la prima volta. Morì per problemi cardiorespiratori nel 1971 a 70 anni compiuti, dopo svariati giri del mondo coi musicisti della sua All Star Band, accettando spesso di esibirsi ogni giorno in una città diversa.

Musicisti neri
Almeno negli anni Trenta-Quaranta, ricordano i biografi, l'organizzazione delle tournée scontava il fatto che essere ospitati in hotel poteva essere un problema per un gruppo di musicisti neri. Neppure una popstar poteva superare il razzismo e la segregazione.
«C'è tanta gente per bene che girato l'angolo lincerebbe un Negro», concedeva Armstrong in una lettera al critico (bianco) Leonard Feather. «Ma finché ascoltano la nostra musica, non pensano a questa roba».
Nel 1956 viene nominato ambasciatore speciale dal Dipartimento di stato Usa. Vola ad Accra in Ghana e si esibisce di fronte a 100mila persone a fianco dal primo ministro Kwame Nkrumah, l'eroe dell'indipendenza appena conquistata.
Giura di aver riconosciuto sua madre (scomparsa qualche anno prima) tra la folla, e quando torna in America dice che quella è la terra dei suoi antenati. L'anno dopo minaccia di annullare una tournée ufficiale in Unione Sovietica se il governatore dell'Arkansas Faubus si fosse ostinato a non fare entrare i ragazzi neri al liceo di Little Rock, desegregato l'anno prima da una sentenza della corte costituzionale. Quando Eisenhower manda l'esercito per fare rispettare la legge Armstrong lo ringrazia con un telegramma, come «cittadino americano».
Ricordando l'episodio in un inedito de11969 appena pubblicato nella raccolta Un lampo a due dita. Scritti scelti — a cura del musicologo americano Thomas Brothers, ed. Quodlibet — il trombettista non riesce però a evitare un velo di disappunto perché, dice, i suoi sforzi «per elevare la mia razza» non sono stati graditi.
Scrive a penna appena uscito dall'ospedale, è a casa in convalescenza, forse il cattivo umore gli detta quasi ottanta pagine dove racconta la sua infanzia a New Orleans nel quartiere «abitato da neri, ebrei e da un sacco di cinesi. Eravamo pigri e lo siamo ancora. Non abbiamo mai provato a stare uniti», dice della sua gente.
Ammira invece il coraggio e l'intraprendenza degli ebrei. A 11 anni aveva lavorato sui carretti della famiglia Karnofsky, ebrei russi, prima come straccivendolo, poi come venditore di carbone alle prostitute per scaldare le casette del quartiere a luce rosse. È grazie ai pochi soldi così guadagnati che ha potuto comprare la prima tromba, una cornetta usata in si bemolle, 5 dollari al banco dei pegni.

Leader solista
Negli anni Quaranta i giovani bopper come Miles Davis e Dizzy Gillespie avevano preso a odiare il "sorriso" buono e gli occhi enormi della maschera di Louis Armstrong. Perché sapeva di clown. Perché puzzava di Sambo, il nero buono e scemo del minstrel show. Erano passati neanche trent'anni ma sembrava un secolo. Dopo l'apice delle incisioni con gli Hot Five e gli Hot Seven, nel declinare della sua parabola creativa ma in piena ascesa come stella del cinema e della canzone, il trombettista aveva risposto dapprima con durezza, liquidando le «troppe note» del bebop come incapacità di saper scegliere quella giusta. In un'altra occasione lo aveva trattato da «musica cinese». Ma il giudizio così tranchant, la fama da zio Tom che lo rincorreva nei circoli delle avanguardie afro-american dovette pesargli parecchio anche perché non lo avrebbe mai veramente abbandonato.
Pur tributandogli rispetto, Amiri Baraka nel suo Popolo del Blues diceva che Louis Armstrong aveva tolto al jazz di New Orleans l'anima collettiva, e imponendosi come leader solista aveva assecondato la spinta della nuova borghesia nera delle metropoli.
Lo metteva accanto a Bix Beiderbecke, il trombettista bianco e "rinnegato" della sua razza, morto alcolizzato. Armstrong fumava marijuana con gusto e riteneva una delle cose più importanti della vita prendere con regolarità una buona purga. Spicca in traduzione italiana la frequente chiusa delle sue lettere: «Lassativamente vostro».
«Ho avuto una vita meravigliosa (...) ma sento su di me l'oppressione esattamente come ogni altro nero», aveva detto un'altra volta, come a doversi scusare di qualcosa.

Un lampo a due dita
Tra il 1934 e i giorni nostri sono almeno una mezza dozzina i volumi che ripercorrono la sua vita: la strada che va da Storyville — il quartiere a luci rosse di New Orleans — a Chicago, a New York e poi in tutto il mondo. I funerali e i carnevali, le mogli e le amanti, il maestro e padre putativo King Joe Oliver, i gangster e i manager, l'orchestra di Fletcher Henderson a New York e il Cotton Club dove aveva conosciuto l'ultima moglie Lucille,ballerina. Alcune sono autobiografie vere e proprie come la classica Satchmo (1956).
Altre usano ricordi fissati sulla carta da Armstrong stesso e forniti a storici e critici amici, di cui oggi possiamo rileggere lunghe parti in questo volume. Così i Taccuini Goffin, scritti nel 1944 per il critico di origine belga Robert Goffin, autore dellabiografia Horn of Plenty: The Story of Louis Armstrong (1947).
Nelle lunghe tournée il trombettista si portava dietro una macchina da scrivere, ticchettando per passare il tempo. «Scrivo in un lampo a due dita», dirà in una lettera.
Davvero curiosa la totale libertà usata nell'ortografia, reinventata dal nulla: puntini di sospensione, virgole, virgolette, caporali, sottolineature e maiuscole che avvolgono le parole come una rete. Per cercare di riprodurre qui un'enfasi, là un effetto di ironia e distacco, quasi una partitura scritta da uno capace di far suonare le parole come nessun altro. Non solo.
Armstrong scrive tenendo vicino un vocabolario e un dizionario dei sinonimi, e controlla perfettamente registri diversi: il jive talk dei musicisti neri, gerghi di strada e familiari, il linguaggio formale. Non c'è niente di primitivo, né dilettantesco in nessuna di queste sue memorie.
Il rapporto con stimatissimi critici come Feather e Goffin, ai quali Armstrong affida in sostanza la cura della sua immagine pubblica assieme ai suoi ricordi, le collaborazioni con Esquire e quelle minori con giornali specializzati come Metronome e Downbeat hanno tutte un lato professionale spesso retribuito con discrezione, a quel che si capisce da alcune allusioni nei testi.
Nel 1935 Armstrong aveva incontrato a Chicago Joe Glaser, un ebreo russo appassionato di pugilato che aveva buone entrature con Capone e la mafia. Glaser era diventato il suo manager, l'uomo che aveva accompagnato la trasformazione del geniale trombettista in personaggio dello showbiz, sorvegliatissimo dietro il sorriso e gli occhi grandi.
«Mi spiace doverti scrivere con la penna», si legge in una lunga lettera imbucata da Las Vegas nel 1955. All'aeroporto di Las Vegas, spiega, la macchina è caduta dalla cima dei bagagli che erano sul carrello. «E sì che volevo swingarti di brutto di ticchettii», recita l'avventurosa traduzione italiana. È la cosa meno sorvegliata che si possa leggere sul conto del trombettista. Che si dice pronto a partire per una lunga tournée in Australia e in Europa solo a patto che il manager si occupi di fare arrivare con puntualità dei pagamenti mensili a due amanti e al figlio segreto avuto da una di loro, di cui sappiamo solo il soprannome "Sweets".
È qui che Armstrong ricorda a Glaser i due consigli ricevuti da un anziano del quartiere a New Orleans, prima di partire per Chicago: «Tieniti da parte sempre un'altra donna come fidanzata», recita il primo, «E tieniti sempre accanto un uomo bianco che possa ovoglia metterti una mano sulla spalla e dire: "Questo è il mio Negro, e nessuno ti farà del male"».
Quell'uomo bianco era Glaser. Ma soprattutto è una delle testimonianze più folli di cosa significasse davvero per una delle persone più celebri al mondo dover vivere in quell'America, a quel tempo.

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