La pubblicazione della traduzione italiana, a cura di Matteo Santarelli, del libro di
Hans Joas Die Entstehung der Werte, pubblicato dapprima in Germania nel 1997
e in inglese nel 2000 (The Genesis of Values), porta all’attenzione del pubblico
italiano un testo che, per la posizione che occupa nella produzione intellettuale
dell’autore e per lo spessore teorico che lo caratterizza, costituisce una lettura
irrinunciabile per meglio comprendere quei testi che sono disponibili da tempo in
lingua italiana. Si potrebbe infatti sostenere che questi ultimi siano nati come
artefatti forgiati nell’officina dell’autore con gli strumenti messi a punto in Come
nascono i valori. Il modo peculiare in cui Hans Joas si è approcciato alla storia dei
diritti umani, o più in generale dell’universalismo morale e del valore della
sacralità della persona, nonché ai temi dell’esperienza religiosa e della fede, non è
pienamente comprensibile se si ignora l’approccio teoretico sviluppato nel libro
oggetto di queste brevi note. L’edizione italiana è corredata da una ricca
introduzione, nella quale Santarelli non solo contestualizza l’opera tradotta nel vasto
corpus della produzione del suo autore, ma riesce anche a mostrarne con grande
efficacia l’attualità, a un quarto di secolo dalla prima edizione tedesca, mettendola in
dialogo con la letteratura più recente e con il discorso pubblico odierno intorno al
tema dei valori, che rispetto a venticinque anni fa è cambiato in maniera sostanziale.
Un’introduzione alle tematiche del libro si trova già in Valori, società, religione,
pubblicato in Italia a cura di Ugo Perone nel 2014 (Rosenberg & Sellier), nel quale
Joas fornisce una panoramica generale sulla sua produzione (si tratta del corso che
egli tenne alla Scuola di Alta Formazione Filosofica di Torino nel 2013). Ivi Joas
descrive la struttura di Come nascono i valori come un “percorso circolare” (p. 67)
intorno alla questione centrale del libro. La metafora del circolo non vuole
chiaramente descrivere un metodo di argomentazione circolare nel senso
deteriore del termine, ma indicare piuttosto un metodo che, invece di procedere
linearmente, per addizioni successive, dispone gli argomenti come in un cerchio,
uno accanto all’altro. La maggioranza dei capitoli sono dedicati a singoli pensatori
che, a partire da Nietzsche, hanno affrontato, in quanto filosofi, psicologi o
sociologi, il tema dell’origine dei valori. Si tratta di una metodologia essenzialmente
storicistica ed ermeneutica, basata sulla convinzione che non esista “un accesso
immediato alle cose stesse”, né sia possibile “un progresso della scienza attraverso
l’ignoranza di ciò che è già stato pensato” (Hans Joas, Kriege und Werte. Studien zur
Gewaltgeschichte des 20. Jahrhunderts, Velbrück Wissenschaft, Weilerswist 2000, p.
12).
Sulla base di questa convinzione, Joas comincia la disamina della questione
intorno all’origine dei valori ricostruendo brevemente come essa sia storicamente
nata. Egli ricorda come il concetto di “valore” prese gradualmente il posto di quello
di “bene” nella riflessione filosofica. Mentre quest’ultimo si riferiva a un’unità
metafisica di bene e verità, conoscibile tramite la contemplazione razione del
cosmo o mediante la rivelazione divina, il primo si riferisce al soggetto i cui
sentimenti di valore sono alla base del giudizio morale. La cosiddetta “filosofia dei
valori” tedesca del xix secolo, tuttavia, pur avendo per prima posto la questione del soggetto, intendeva quest’ultimo
come soggetto trascendentale e non come individuo storicamente situato. Questo
è un aspetto che oggi non possiamo più trascurare, se non ignorando l’intera
storia della filosofia del secolo successivo. La domanda circa il legame soggettivo ai
valori deve allora al contempo essere un’indagine sull’origine storica degli stessi. In
questo testo, tuttavia, non assistiamo ad una disamina storica di specifici valori
(come avviene ne La sacralità della persona), bensì ad una riflessione più
generale sulle condizioni che rendono possibile l’emersione di valori da esperienze
radicate nella storia, tanto collettiva quanto individuale.
L’approccio storicista e soggettivista non induce l’autore all’affermazione di un
relativismo valoriale. Si tratta, piuttosto, di mettere l’accento sul carattere esperienziale,
“fenomenologico”, del legame al valore, e delle radici che esso ha nella storia.
Nel capitolo dedicato a Scheler Joas ricorda l’espressione del filosofo “bene in sé (an
sich) per me (für mich)” (p. 173), che indica l’idea di un bene che, pur
essendo tale “in sé”, non può esistere senza manifestarsi al soggetto. Al pubblico
italiano verrà forse in mente l’ermeneutica di Pareyson, per il quale la verità è
accessibile soltanto attraverso la molteplicità delle interpretazioni. Allo stesso
modo, Scheler sostiene che un valore non può esistere per il soggetto se non a
partire dal momento in cui esso ne fa esperienza. Joas aggiunge tuttavia che il
valore stesso nasce nella e tramite l’esperienza, ossia non è preesistente ad essa. In
che senso si può allora parlare di un valore “in sé” ?
I valori, per Joas, non sono posti (gesetzt) dall’individuo, né istituiti
socialmente ; non sono il frutto di un più o meno inconscio risentimento, né di una
scelta razionale. Joas insiste sulla dimensione passiva dell’esperienza del valore, sul
fatto cioè che il soggetto fa esperienza di essere afferrato (ergriffen) da esso. Il
valore si impone alla coscienza del soggetto come evidenza o necessità nel corso
di esperienze che Joas chiama di “autotrascendenza”, quando cioè il soggetto fa
esperienza di qualcosa che trascende (übersteigt) il suo limite, fisico o spirituale,
e la sua stessa volontà. Questo è il carattere assoluto del valore : farne esperienza
significa riconoscerne la forza, il carattere sacrale, che impedisce di ridurlo a
strumento dell’arbitrio personale, così come la persona che ama fa esperienza di un
amore assoluto, nel senso che esso si impone alla volontà ed impedisce di trattare
la persona amata come un semplice mezzo.
Questa dimensione esperienziale del legame al valore è sfuggita completamente a
Nietzsche. Su di essa hanno messo l’accento, oltre a Scheler – che discute
direttamente le tesi nietzschiane –, anche Williams James e Émile Durkheim,
autori centrali per l’intera produzione di Hans Joas, a ciascuno dei quali in questo
libro è dedicato un capitolo. James è, in effetti, il primo ad attribuire un ruolo
centrale all’esperienza nel suo studio sulle forme dell’esperienza religiosa. A lui non
interessa la questione teologica dell’esistenza di Dio, che considera razionalmente
indecidibile, ma l’insieme di emozioni, atti ed esperienze che caratterizzano
l’incontro con ciò che l’individuo considera essere il divino. Ed è proprio James che
mette in luce il carattere passivo di quest’esperienza, insistendo sul fatto che la
credenza religiosa non può essere scelta. Così come la fede, per James, non può
essere il risultato di una scelta, per Joas il legame al valore resta inspiegabile sulla
base di una teoria dell’azione incentrata sulla relazione mezzi-fini.
Le dettagliate analisi fenomenologiche di James, tuttavia, restano incomplete, in
quanto considerano soltanto l’esperienza individuale, facendo in parte astrazione dal
contesto sociale e storico. Questo è invece centrale per Durkheim, che, con occhio
di sociologo, individua l’origine della credenza religiosa in esperienze di estasi collettiva.
Mentre l’origine terrena della religione è per Durkheim prova del fatto che
non esiste altra dimensione, Joas rimane in questo fedele a James, lasciando aperta
la questione. Le esperienze di autotrascendenza possono essere interpretate in diversa
maniera, ma per Joas una spiegazione psicologica o sociologica dell’esperienza
religiosa non è incompatibile con una spiegazione teologica, purché ovviamente
quest’ultima tenga conto di quanto è verificato empiricamente dalla prima. L’origine
di un sentimento, come del resto sosteneva già Nietzsche, è indifferente rispetto al
suo valore di verità.
Con riferimento al lavoro di Georg Simmel, John Dewey e Charles Taylor, Joas
mette infine in luce un altro aspetto caratterizzante il processo della nascita del valore.
Si tratta non soltanto di esperienze di autotrascendenza, ma al contempo di
autoformazione o trasformazione, in quanto l’identità personale e collettiva si forma
e si trasforma sulla base di un legame essenziale con determinati valori. Come
sottolinea Taylor, nel rispondere alla domanda “chi sono io ?” non possiamo che far
riferimento, almeno implicitamente, a ciò che ha valore ed è irrinunciabile per noi,
così come spesso possiamo spiegare le nostre azioni solo facendo riferimento alla
forza motivante del valore, che supera quella della riflessione (stranamente
manca un riferimento al concetto di volitional constraint di Harry Frankfurt,
l’idea è tuttavia presente).
Joas conclude la prefazione all’edizione italiana di Come nascono i valori
auspicando che questo libro contribuisca a mettere “gli spiriti laici e religiosi in
Italia a confronto, ma anche a contatto” (p. 49). A questo scopo può effettivamente
servire l’invito di Joas a riflettere sui caratteri comuni dell’esperienza personale,
sul fatto cioè che sia credenti che non-credenti fanno, nelle loro vite, esperienza
di qualcosa che ha valore indipendentemente dalla loro volontà e che comanda il
loro rispetto. Che si tratti dell’amore per una persona, dell’esperienza di fusione con
la natura, dell’arte, del rispetto che ispira la vita fragile di chi nasce, o del legame
con Dio, si tratta in ogni caso di esperienze fenomenologicamente simili, che
spingono il soggetto al di là dei propri limiti, non solo in senso figurato. Quello che
manca, nel libro di Joas, è un criterio per distinguere questo tipo di esperienze
dall’esaltazione della massa e dall’estasi della violenza (Simmel, ad esempio,
attribuisce nei suoi scritti antecedenti alla grande guerra un carattere formativo
all’esperienza del fronte, come Joas ricorda, senza particolari commenti, nel
capitolo dedicato a questo autore). Si potrebbe forse argomentare, con William
James, sulla base degli effetti che determinate esperienze hanno sulla vita delle
persone. Mentre un’autentica esperienza religiosa – così come, si potrebbe dire, un
legame con un valore autentico ‒ è accompagnata, per James, da « un umore di
gratitudine, che può prendere qualunque forma tra la serenità spensierata e la gioia
entusiasta » (W. James, The Varieties of Religious Experience (1902), Oxford
University Press, Oxford 2012, p. 40), l’esaltazione della massa, ad esempio, è
caratterizzata da un’euforia momentanea, tanto più intensa quanto più forte è il
senso di impotenza dell’individuo nella vita quotidiana. Anziché seguire questa
pista, certo di non facile percorrenza, Joas fa ricorso, nell’ultimo capitolo del libro, all’idea
del giusto, che emerge, pragmatisticamente, dalle “esigenze antropologicouniversali
di coordinazione dell’azione sociale” (Come nascono i valori, pp.
270-271) e deve servire da criterio morale per guidare il giudizio sulla validità del
valore. Il valore, dunque, in quanto tale non è guida sicura per la morale, ma allo
stesso tempo – ed è questo ciò su cui a Joas interessa insistere ‒ non può esistere
motivazione morale se non vi è un legame soggettivo al valore.
Il riferimento pragmatista alla necessità della coordinazione sociale, che passa attraverso
la comunicazione, costituisce un altro invito a riconoscere la possibilità di
una “comunicazione sui valori”, che non equivale a un mero scambio di argomentazioni
razionali sulla legittimità delle proprie credenze – in quanto, come si è detto, il
legame al valore non ha un fondamento argomentativo ‒, ma ad un dialogo basato
sul rispetto dell’esperienza individuale, della diversità dei modi in cui soggetti e culture
articolano le loro esperienze di autotrascendenza, le quali, per Joas, sono una
costante antropologica che caratterizza ogni essere umano in ogni tempo e luogo.