Recensioni / Colpo di stato a Babele

Colloquio con Daniel Heller Roazen, di Alessandra Iadiccio

Come nasce una lingua? Per una decisione politica risponde un grande filosofo, tra i massimi esperti in materia. E in questa intervista spiega come l’esaltazione di antichi dialetti e idiomi locali non è altro che un insano e sterile anacronismo


Non esiste né in cielo né in terra la lingua che può mettere d’accordo tutte le genti, garantire la comunicazione e la pace nel mondo. E’ risaputo dai tempi di Babele. Dacché i suoi abitanti, puntando alla conquista del cielo, caddero nel solito errore: la smania di possesso di una sola parola e di un solo nome. Condannati perciç alla confusione e alla dispersione.
Si muove disinvolto tra le lingue Daniel Heller-Roazen che della biblica Babele ha fatto il principio e il fine della sua riflessione. Quarantenne, canadese, di madrelingua inglese, ha studiato e conosce, oltre al francese e le lingue europee, le lingue classiche e le semitiche, le lingue morte e le risorte, quelle sacre letterarie, promesse, dimenticate. Sanscrito, ebraico biblico, provenzale, d’oc.
Teorico del linguaggio, professore di letterature comparate all’Università di Princeton, è tradotto con successo in varie lingue. E’ uscito di recente in Francia (da Seuil) in Germania (da Suhrkamp) e in Italia (da Quodlibet) il suo “Ecolalie, saggio sull’oblio delle lingue e sui loro inestinguibili echi e ritorni.
In tempi in cui, ripullulano idiomi, ritornano, spesso armati, i particolarismi, in tempi di globalizzazione e “glocalismi”, di migrazioni e rivendicazioni identitarie, e di confusione linguistica, Heller-Roazen spiega (con molta razionalità) quali sono i rapporti tra gli stati, le lingue e i territori in cui sono diffuse e divise.

“Per cominciare”, dice Heller-roazen, “va chiarita una cosa, che sembra banale, ma non lo è. Non esiste la lingua di un singolo. Una lingua è sempre una cosa pubblica che fornisce uno strumento di espressione alla nazione. Ma la lingua può benissimo fare a meno della nazione”

Cosa vuol dire ?

“Semplice. Una lingua nazionale si costituisce sempre con una decisione politica. Max Weinreich, grande linguista novecentesco, studioso dello yiddish, sosteneva che la lingua altro non è  che “un dialetto con un esercito e una flotta”. Un dialetto cioè che diventa la lingua di uno Stato. Non esistono principi strettamente linguistici per identificare una lingua. Una lingua non è un dato fisico, ma un corpo dotato di organi mutanti: sfugge alla presa. Consta di tratti distintivi innumerevoli, e il linguista non ha l’autorità per definire quelli che la distinguono dalle altre. Lo può fare solo il politico: esponendosi però al rischio di commettere un errore filosofico, all’illusione cioè di credere che si possa disporre di una lingua per cambiare il mondo. E’ il malinteso che sottende la political correctness in America”.

Ha citato una frase di Weinreich, scritta in yiddish, lingua minoritaria e transnazionale o dialetto senza armi né flotta?

“Lo yiddish era lingua d’arte senz’armi con una vasta letteratura: romanzi, scritti filosofici, poesie. Forse una eccezione di una lingua senza Stato”.

E se una lingua, proibita con un atto politico, torna a rivendicare i suoi diritti?

“E’ il caso del catalano, soppresso sotto il franchismo e diventato oggi lingua ufficiale in Catalogna, ma che rimane lo stesso una lingua minore in Spagna. Mi spiego. A partire dagli anni Ottanta il catalano è rivendicato non solo come espressione di ambizioni culturali, ma di una distinta identità politica: come strumento di riconoscimento di un popolo. Si pubblicano i “nostri” autori, i “nostri” classici o si traducono i classici nella “nostra” lingua. Si vuole recuperare un fenomeno attribuendogli con la forza di una ideologia una valenza diversa, nazionale. Ma è un anacronismo. Si punta sull’idea dello Stato nazionale, decaduta, superata, per restituire al catalano un valore che gli era originariamente alieno. Operazione falimentare”.

Accade però che una cultura linguistica sottomessa o sopraffatta si prenda le sue vendette. E’ di due settimane fa la notizia che il portoghese parlato nelle ex colonie del Sudamerica ha imposto le sue regole ortografiche alla lingua della madrepatria parlata a Lisbona.

“E’ sorprendente. Ma più che altro perché il Portogallo e le sue ex colonie del Sudamerica si considerano due mondi a sé. Non si pubblicano né leggono gli stessi libri in Brasile e a Lisbona, a differenza di quel che accade nell’universo anglosassone. Va detto però che nelle colonie la lingua mantiene caratteristiche di purezza che nella madrepatria vanno perdute. Nella sua variante coloniale la lingua della madrepatria è più autentica, mantiene tratti più antichi e originari. E’ così per lo spagnolo dei colombiani rispetto a quello di Madrid. Per certi dialetti del Nordamerica, come l’idioma di Boston, rispetto all’inglese di Londra. Per il francese del Canada rispetto alla lingua di Parigi. I parlanti lontani dal paese d’origine sono più conservatori”.

Quand’è che da buon proposito di tutela di una lingua originaria, culturale, letteraria, diventa cifra ideologica ? Prenda il caso dell’occitano: la lingua d’oc dei trovatori provenzali. Misconosciuta in Francia, tutelata in Francia dal ’99 come patrimonio storico, rivendicata come principio di identità nelle valli del Piemonte.

“Il fenomeno della rivendicazione locale non è solo piemontese. Accade anche in Francia. Stiamo parlando della lingua madre della lirica occidentale, ma farne un principio di rivendicazione politica  è una battaglia due volte anacronistica: sia rispetto alla categoria politica dello Stato nazione ricomparso dentro parametri di geopolitica diversi, sia rispetto alla valenza culturale specifica della lingua. Sono risorgimenti tanto pù assurdi quanto più ostinatamente si rifanno al valore di una lingua storica, non più parlata. Riattivare una lingua che non si parla più in nome di una causa politica è una operazione senza senso”.

Però c’è il caso dell’ebraico: ripristinato dalle origini bibliche e promosso a lingua nazionale dello Stato di Israele.

“E’ il caso più celebre di una lingua morta e resuscitata con un obiettivo politco. L’unico caso riuscito di ripristino di una lingua antica, trasformata nella lingua viva e parlata da un popolo di una neonata nazione. L’operazione ha avuto successo per via delle condizioni estreme in cui si trovavano gli ebrei giunti in Palestina. Avevano bisogno di una lingua comune: perciò si è potuta produrre una lingua nuova. Con un atto politico. E’ l’ultimo successo (e il primo) del tentativo di riportare in vita una lingua estinta. Dopo il ’48, tutti i tentativi analoghi sono parodie”.

Una parodia di bilinguismo amministrativo? E i certificati di identità etnica? In Italia abbiamo il caso dell’Alto Adige, O SudTirol: letteralmente, geograficamente e politicamente davvero una questione di punti di vista…

“Poeticamente, si può aggiungere citando Paul Celan, il bilinguismo non esiste. Politicamente si piega a una strumentalizzazione politica, serve a reclamare una differenza o un’appartenenza. Il poeta invece sa che la sua lingua precede l’esistenza, l’identità e persino il nome dell’Io. E sfugge a tutte le sottoscrizioni e certificazioni politiche. Perché mi appello alla poesia ? Per indicare il punto limite oltre il quale la decisione del politico non può intervenire. “Aus der Ferne”, da lontano, in esilio a Parigi Celan poetò in tedesco fino alla fine. Non lo decise lui. Era la sua lingua madre, e la lingua madre non si sceglie. Ti sceglie quando non parli ancora. E’ l’evento indisponibile che “ti getta nell’essere”, come direbbe Heidegger, e pone limiti al potere di decidere e amministrare. E’ l’opposto della lingua costituita con un atto politico. Il parlante non può che mettersi in ascolto
e accoglierla. Per estremo paradosso, ospitando in sé una lingua data come estranea: alla maniera di Conrad e Nabokov, che trovarono la propria identità artistica in una lingua altra dalla materna”.

Cos’è la traduzione ? Un’occasione di intesa o una sopraffazione ?

“Tradurre non è il movimento che porta da una lingua all’altra. E’ la trasformazione della propria lingua attraverso l’incontro con l’altro. Se parli una lingua diversa dalla mia non sei un mio nemico. In fondo abitiamo la stessa casa. L’incontro con la tua lingua risveglia nella mia potenza che altrimenti non avrei conosciuto”.

Ha citato Heidegger che parlava tedesco: la lingua della cultura, si credette dal romanticismo fino alla fine del nazismo. In questi giorni, la “Frankfurter Allgemeine Zeitung” ha aperto un forum sulla fine del sogno di una lingua universale della cultura. I tedeschi si sentono sopraffatti dall’inglese e minati al loro interno dalla presenza degli immigrati. Globalizzazione e migrazione infrangono i sogni di cultura ? Sradicano le lingue ? Confondono le idee e le identità ?

“Diffido di tutte le espressioni di rimpianto che celano aspetti oscuri e risentimenti. E’ vero che il tedesco è stato per secoli una lingua culturale, i grandi scrittori del Novecento che scrivevano in tedesco non erano tedeschi. Solo di recente è diventato una lingua nazionale. E quando la Germania ha fatto leva sulla sua identità nazionalista, su una politica di conquista fondata su un’identità territoriale fluttuante, ha provocato una catastrofe. Nel dopoguerra i tedeschi hanno visto boicottata la loro lingua nel panorama europeo. E usano come tutti, anche quell’inglese globale, il globish”.

Che cos’è ?

“Non è una lingua parlata, bensì un mero mezzo di trasporto e di comunicazione sul Web. Interessante in un altro senso è il fenomeno degli emigrati che si trovano espropriati di tutte le lingue: i bambini turchi oggetto della controversia berlinese sulla lingua scolastica, ma anche gli italiani di prima generazione, nati in Germania da genitori italiani. Sono parlanti a cavallo tra due lingue senza appartenere né all’una né all’altra. Presto anche voi in Italia troverete simili casi di bambini romeni o albanesi. Di fatto sono ragazzi che parlano, hanno una loro lingua, che forse non ha ancora trovato un’espressione scritta né dignità culturale”.