Recensioni / La vita segreta degli esseri stanziali

In che misura è ammissibile parlare di legami di correlazione tra pensieri e territori, saper-fare creativi e incarnazioni di significati, opere d’arte e memoria della specie, l’assetto ecosistemico della Terra e l’avvicendarsi di diverse civiltà nel tempo? Cos’è la stanzialità? Siamo certi di aver compreso la sua natura o ci resta ancora molto da apprendere? Anche senza pretendere di rispondere in maniera esaustiva, è utile interrogarsi a riguardo. Lo è in quanto, essendo entrati nell’era dell’antropocene, si è chiamati a riconsiderare le facoltà umane, se non a ridefinire radicalmente alcune di esse. Per farlo, però, occorrerà innanzitutto districarsi da un nodo: decidere se credere, come perlopiù è accaduto in epoca moderna, negli effetti di strutture, sistemi e dispositivi impersonali che determinerebbero chi siamo, cosa facciamo e dove andiamo, oppure azzardare l’ipotesi che individui e comunità, pur nelle distinzioni delle culture e delle storie particolari, possano condividere in più luoghi e momenti una precisa attitudine antropologica a (ri)disegnare la propria esistenza planetaria.

Oggi sappiamo con sufficiente chiarezza che l’homo sapiens è di per sé una forza geologica oltre che storica, è riuscito a interferire nell’habitat naturale al punto da guastare i suoi equilibri forse in modo irreversibile: il riscaldamento del nostro pianeta ne è una prova. All’acquisizione di questa nuova coscienza di sé da parte dell’umanità dovrebbe accompagnarsi una crescita di consapevolezza della portata e della multiscalarità delle agentività umane. Tuttavia, si direbbe che un simile sviluppo incontri ostacoli e resistenze. A riguardo, un esempio emblematico è la nonchalance con cui viene di frequente minimizzato il valore che attività millenarie come quella artistica potrebbero assumere nella vicenda umana tout court. Voci e intenzioni di senso volte a ribaltare questo stato di svilimento sono silenziate dal frastuono di quel commercio mondiale di opere che ormai passa sotto il nome di ‘arte contemporanea’, dallo scadere dei musei a vetrine di potenze multinazionali e dalla convulsa propagazione di immagini digitali dove pubblicità, cultura visiva, moda e inventività si confondono al punto da implementare la più incontrollata indistinzione tra arte e non arte.

Il bailamme è tale che i pessimisti di turno avrebbero gioco facile nel sostenere che il ritorno della famigerata era del Kali Yuga sia imminente e che, ancora una volta, le arti anticipino lo spirito del tempo lasciandolo presagire, in questo caso, proprio dallo smodato acuirsi della labilità del loro ambito dove, tra i soggetti coinvolti, prevalgono affettazione e opportunismo, manipolazione e sfarzo. Le geremiadi, però, raramente risolvono le crisi di cui si lamentano. Che fare allora? Il problema si complica ulteriormente se si considera che la percezione di una crisi in atto non è affatto consensuale o facilmente condividibile. La propaganda planetaria che il mondo dell’arte tutt’oggi imbastisce nell’autocelebrarsi induce a delegittimare quei comportamenti o discorsi poco funzionali alla sistemica sopravvivenza di quello stesso mondo.

È difficile determinare dove volgersi e come impegnarsi affinché sorgano delle dinamiche alternative di soggettivazione, delle inedite modalità di critica del presente che rendano l’attività artistica comprensibile in un vis-à-vis con l’avventura umana. Sul fronte del globale, un’azione affermativa può facilmente venire risucchiata in un magma di genericità che la depriverebbe dei suoi tratti originali. Da qualche decennio, la de-differenziazione è incrementata dal fatto che le oligarchie detentrici del potere si rafforzano non tanto impossessandosi dei mezzi di produzione bensì controllando quelli di riproduzione, tecnologica e non. Per mezzo di questi ultimi, mentre l’impatto pubblico della comunicazione esula dai contenuti comunicati e le informazioni si diffondono senza sosta, mentre i consumi e gli stessi assetti mentali, proprio come accade con le merci, sono destinati all’immediata obsolescenza e al rimpiazzo, resta invincibile la credenza nella coesione garantita da un unico grande tempo planetario in cui si sarebbe tutti inevitabilmente immersi. Fin quando si è attivi soltanto al suo interno è arduo squarciare questo incantevole velo di relativismo e determinismo, omologazione e sfruttamento di risorse naturali e umane ai fini del profitto economico. Forse, per svincolarsi dal cappio di una temporalità totalizzante, bisognerebbe rivolgere lo sguardo alla dimensione “locale”. Apprezzare la parzialità, ripensarla nella sua capacità di ospitare una varietà di orologi e frecce del tempo più consonanti con le priorità e le aspettative della nostra specie, nonché in grado di attuare la plasticità congenita agli esseri umani attraverso la creazione di forme di vita e proposizioni identitarie.

Provando a figurarsi il locale come milieu non riduttivamente fisico o geografico bensì anche psichico, se non metafisico, la sua stanzialità si rivela dotata di vita propria paragonabile a quella di un organismo complesso. È un’area occupata o definita da entità generate in virtù di matesi e/o poiesi e quindi con proprietà sensibili, sovrasensibili oppure composte di entrambe. Denota un concentrato di qualità inalienabili da processi di co-identificazioni tra cose e persone, immagini e stati d’animo, habitat e vita mentale di uno o più individui. Così, almeno in via di ipotesi, in qualsivoglia luogo della Terra delle verità indigene potrebbero non solo affiorare e stagliarsi nella loro insularità, ma aspirare a connettersi alla globalità senza dover sottostare ai dettami di un universalismo spurio che recentemente è ricomparso nella hybris di un’organizzazione simbolica dell’umanità esclusivamente basata sul marketing.

Una tale processione di pensieri è venuta più e più crescendo appena ho finito di leggere Genius Loci di Stefano Chiodi. Il libro non affronta direttamente i temi succitati, ma, tra i suoi meriti, c’è quello di invogliare a riflettere anche imboccando altre vie da quelle battute dall’autore.
Il sottotitolo del volume, Anatomia di un mito italiano, segnala la volontà di approfondire la locuzione di ‘genius loci’ in quanto espressiva di un mito nazionale. Inoltre, procedendo lungo le pagine, si comprende che la parola ‘mito’ è da intendersi nel senso malfermo di idealizzazione, sogno e chimera piuttosto che in quello affatto positivo di razionalità arcaica (ovvero nell’accezione herderiana e romantica la cui eco risuona nella cultura tedesca fino a Blumemberg e Frank). Deciso a lasciarsi alle spalle una gamma di abbagli, esaltazioni e travagli, Chiodi mette in questione il concetto di genius loci, la sua postulazione dell’asseribilità di un insieme di caratteristiche spirituali, socio-culturali, simboliche e linguistiche, che connoterebbe un luogo, un ambiente, una nazione nella sua irriducibile unicità.

Il ricorso alle armi della critica e la delimitazione del campo d’indagine, la scelta di focalizzare su alcuni degli aspetti più salienti della storia della cultura italiana postunitaria, privilegiando in special modo la pratica e teoria delle arti visive, producono gli effetti desiderati. Si apprende, tra l’altro, come la figura del genius loci si nasconda lì dove semmai non te lo aspetti; perché alimenti pie illusioni; in quale grado galvanizzi la retorica fascista e l’esaltante ideologia della latinità ma possa pure stimolare le più correnti difese, democratiche e neoilluministiche, del patrimonio artistico italiano.
Tra le impressioni finali ricevute dal libro, c’è quella che significativamente spinge a guardare con occhi diversi una curiosa peculiarità del Bel Paese dove, forse più che altrove, il genius loci è stato colpito da ripetute scosse sismiche che ne hanno compromesso la validità senza mai lasciarlo interamente sommerso dalle macerie. È questa tensione a essere di per sé sintomatica, come intuisce Chiodi.

Tanto è vero che, appena si tenta di dipanare la matassa in cui è concettualmente imbricato il genius loci, ci si ritrova alquanto disorientati, non sapendo più affermare con certezza se esista un’arte “italiana” o se il solo ricorrere a una tale dicitura implichi un attaccamento alle vestigia di un obsoleto intendimento dei fenomeni artistici e dell’idea di nazione. E ancora. Non si sa più come definire il sentimento di appartenenza, se a vivificarlo siano delle realtà preesistenti al singolo individuo, come quelle di patria, lingua, famiglia, etc., o se, invece, vada sviluppandosi di pari passo con esperienze e cognizioni di cui non si aveva necessariamente notizia prima che quel sentimento emergesse. Una volta incappati in simili antinomie, si è addirittura invogliati a immaginare la possibilità di diventare italiani in virtù dell’arte e dei valori generati dalle opere prodotte nel Bel Paese, benché, in tal caso, ci si potrebbe nuovamente smarrire non sapendo più cosa significhi la parola ‘italiani’. Dal canto suo, coerente con le argomentazioni avanzate, Chiodi constata che oggi il carattere italiano dell’arte realizzata nella Penisola dovrebbe pronunciarsi e lasciarsi rintracciare in negativo: «in Italia l’arte ha da essere non italiana» ˗ lì dove il senso di un’incognita viene dirottato in quel ‘non’ scritto in corsivo.

Spostandosi avanti e indietro nella storia e nella storia dell’arte, dalla pittura alla fotografia, dall’architettura al cinema, l’anatomia del mito prosegue a zig-zag. Se la deriva irrazionale e l’abbaglio mitopoietico sono una minaccia costante per chi, nel Novecento, si richiama al genius loci, è altresì degno di nota che dal Sessanta in poi alcuni lavori di artisti quali Pascali, Festa, Ontani o Paolini, pur riallacciandosi a De Chirico e alle sue immagini antimoderniste, svelano un’altra diversissima funzione del mito identitario, che stavolta non rimuove, bensì accoglie, l’eterogeneo. La loro arte, noncurante di restare fedele alla tradizione, «può essere riletta non come una forma di nostalgia per un’epoca passata [...] o come una desiderabile forma identitaria in chiave antiamericana, ma come ritorno, in un contesto del tutto differente, di una volontà di depistaggio, di una fantasmagoria ironica e per nulla ‘cultuale’». In più occasioni, Genius Loci riprende e corregge il suo leitmotiv: lo perde e lo riacciuffa in un altro sembiante dopo poco meno di qualche pagina. Lo stile del testo ricalca queste oscillazioni. In alcuni passi la scrittura procede nervosamente, tradendo e/o corteggiando l’instabilità che riscontra nel confrontarsi con il tema. Questo tratto è pregevole e spinge i lettori a partecipare ai ragionamenti dell’autore ritrovandosi immersi, anche loro malgrado, nel groviglio di significati e significanti fluttuanti che costituisce il sottofondo turbolento del libro. Ma da che dipende l’acceleramento del già caotico moto del concetto di genius loci?

La risposta la fornisce il capitolo 1, dove la discussione di Chiodi, e l’intero saggio, prende il via da una mostra curata da Achille Bonito Oliva nel 1980 e intitolata Genius Loci. La rassegna includeva opere associabili sotto la rubrica del ‘ritorno alla pittura’, un fenomeno da qualche tempo nell’aria visto che gli anni Settanta (in Europa come oltre l’Atlantico) registravano una saturazione sia nella pratica sia nelle istituzioni e nel mercato, con quest’ultimo che mal sopportava l’impegno civico-politico dei neoavanguardisti e le rarefatte composizioni degli artisti concettuali. Data al 1979 un testo programmatico in cui Bonito Oliva introduce il termine di ‘transavanguardia’ per alludere alla ripresa dei tradizionali linguaggi di pittura e scultura da parte di cinque artisti italiani (Clemente, Chia, Cucchi, De Maria, Paladino). Essi (ri)pongono in primo piano la manualità, l’autocompiacimento estetico, l’uso smodato della citazione, l’ironia e l’esuberanza creativa affrancata da rigidi pregiudizi ideologici. Per Bonito Oliva, nel rinnegare una visione evoluzionistica dell’arte e della storia, la transavanguardia risponde al contemporaneo frantumarsi di ideali che, fino a poco prima, spaziavano dalla politica alla morale e all’economia. Un «sano opportunismo» guida questi artisti che, nello stallo susseguente al crollo delle grandi narrative della modernità, colgono l’occasione per assumere un atteggiamento duttile, che privilegia la lateralità del linguaggio e l’uso di strategie affini a quelle della pittura italiana del manierismo, che praticava la trasgressione «simulandola dentro le maglie convenzionali di un linguaggio che fingeva continuità e gradimento sociale».

Si comprende perché l’appropriazione della locuzione latina da parte di Bonito Oliva costituisca l’incipit di Genius Loci. Sebbene il termine fosse già riapparso non molto prima nel campo dell’architettura, dove autori come Aldo Rossi e Christian Norberg-Schulz (ricordati da Chiodi) ne avevano fatto un uso sobrio e originale, è nel 1980 che si volta pagina o che comunque le cose si complicano. Non più passatista o reazionario, ma nemmeno contenibile in una precisa fenomenologia, genius loci assume i tratti di un’espressione anfibia. Nel testo introduttivo alla mostra, Bonito Oliva è prodigo di affermazioni intese a differenziare l’arte europea da quella americana; parla di ulteriori distinzioni dovute all’area geografica e culturale del Vecchio Continente; allude a un «carattere antropologico» inerente all’arte di vari paesi; trascrive un passo in cui Hegel associa le disposizioni artistiche di alcuni popoli all’immediatezza e alla naturalità che un soggetto non può generare ma ritrova o riceve come dato. Se si fosse fermato a questo tipo di argomentazioni, il critico-curatore avrebbe solo rinverdito un’acquisita nozione del genius loci. Ma non è così. Bonito Oliva esalta il locale demitizzandolo e accogliendolo nella sua instabilità, insinuando che nessun fondamento, origine o verità lo sostenga. Con la transavanguardia, ci viene detto, gli artisti impiegano il linguaggio «come uno strumento di transizione, di passaggio da un’opera all’altra, da uno stile all’altro». Che si tratti di arcaismi, artigianalità, stereotipi, oppure di allusioni a celebri dipinti, il recupero dal passato «non significa identificazione ma capacità di citare la superficie dei linguaggi ripresi».

L’attenersi alla superficie, attribuito da Bonito Oliva ai pittori della transavanguardia, è in sintonia con una fortunata concezione dei segni, saussurriana e poi levi-straussiana e lacaniana, che conferisce priorità al “significante”, agli elementi materiali, suoni e lettere di una lingua, a discapito di ogni fissazione o stabilità dei significati. Una volta applicato nel campo delle arti visive, quel primato può spronare un critico a condurre esegesi interminabili, così come facilitare negli artisti un movimento in più direzioni nella storia delle immagini. Con l’avvento di questo nomadismo, la reclamazione identitaria non riguarda più la possibilità di vere incarnazioni del senso bensì si compie per via di disseminazioni. La contraddizione primaria tra linguaggio e realtà è stata assunta quale destino ineluttabile dell’homo sapiens. La si può contemplare, finanche sfruttare, ma non ci si può opporre ad essa, tentarne il superamento. A distanza, ci si rende conto che, mentre l’artista è portato «a ritrovare le proprie radici, ad affermare la propria individualità», nella transavanguardia il genius loci ritorna o si dà a vedere mediante citazioni o apparizioni di qualcosa che non potrà mai essere come prima, non perché prima c’era un originale e adesso c’è una replica, ma perché la distinzione tra originale e copia è saltata.

Questa nebulosa, in cui non si avvistano cominciamenti e fini, è uno dei principali motivi ispiratori del saggio di Chiodi; assumendola come trampolino di lancio, egli può intraprendere la disamina di quel che, a questo punto, è da ritenersi sì un oggetto fluido, tanto fisico quanto psichico, ma in entrambi i casi indeterminato e indeterminabile. Privo di un referente duraturo, il genius loci si scopre inscritto in una fitta rete di rimandi, differimenti e contraddizioni che se da un lato permettono di identificarlo e anatomizzarlo nei suoi mutamenti, dall’altro frustrano l’attribuzione di una sua pienezza significante. Inoltre, individuando una data, il 1980, Chiodi ci aiuta a capire come dopo quell’anno diventi quasi un obbligo scrivere un libro come Genius Loci, provare a sondare perché, vuoi nell’Italia craxiana e berlusconiana vuoi in quella otto-novecentesca, le proposizioni identitarie in arte, se non sono vuote già in partenza, stranamente tendono a traballare e mancare di senso. Imperscrutabile in primis, nonché aperto alle peripezie e simulazioni tipiche dei manierismi, il genius loci richiede un’anatomia capace di mutare in una chirurgia variazionale, ossia in un vero lavoro di decostruzione. Grazie ad esso, il mito viene dissezionato, mostrato nella sua pluralità e sconfessato nella sua categorica asserzione di identità assieme all’idea stessa di ‘essere stanziale’ che sussume e da cui si alimenta.

Da prudente chirurgo, Chiodi esprime delle riserve in merito alle finalità degli artisti della transavanguardia e al costrutto del suo apologeta. Piuttosto che localista e autarchica, quel tipo di pratica potrebbe annidare in sé una brama di esportabilità, di farsi apprezzare all’estero confermando atavici cliché sull’Italia. È quindi importante sottolineare, come fa Chiodi, che assieme ai tratti artigianali, ludici e versatili, assieme al fiuto commerciale e al bisogno di pubblicità, potrebbe svolgere una funzione decisiva l’innescarsi di un meccanismo di subordinazione in cui l’esserci identitario lievita nella misura in cui asseconda l’imperativo del ‘sono come tu mi vuoi’. E invero viene qui da ricordare come queste dinamiche di rispecchiamento nei riguardi di una supposta alterità siano percepibili anche prima della fioritura transavanguardistica: nei testi seminali del 1967-69 che segnano i primordi dell’Arte Povera, ad esempio, Germano Celant descrive quel nuovo fenomeno nazionale elogiando il suo attacco al consumismo e coevo tentativo di integrare arte e vita. Aperta alla contingenza, stanca delle barriere disciplinari, l’Arte Povera sembrerebbe attualizzare il messaggio del Futurismo italiano. D’altro canto, però, il critico appare parimenti desideroso di istituire dei parallelismi, di riallacciarsi al noto per rendere fruibile a livello internazionale l’incognita rappresentata dalla nuova arte. Egli la caratterizza anche enfatizzandone l’estremo riduzionismo formale, così che il “povero” arriva a risuonare con tutt’altro, con l’inclinazione modernista e autoriflessiva della pittura occidentale per come in quegli anni veniva espressa dall’essenzialismo della Minimal Art americana.

(Poiché l’unificazione dei suoi territori risale a meno di due secoli fa, a differenza di Francia o Germania, l’Italia è entrata nella modernità con ritardo e senza poter elaborare una precisa visione della propria organizzazione interna. Ne è una prova il fatto che specializzate aree come quelle di filosofia, teoria politica, storia e storia dell’arte, siano cresciute facendo a meno di una concomitante ricerca di autonomia che, invece, è il naturale riflesso delle proposizioni identitarie delle nazioni-stato. Ad eccezione forse della deriva fascista, del suo modernismo reazionario, questo stato di cose continuerà a protrarsi. Invece di procedere esercitando il diritto all’autopoiesi, magari interrogandosi lucidamente sulla sopravvivenza di pensieri e volizioni che anticipano o annunciano la stessa modernità, parte della cultura in Italia si direbbe guidata dal desiderio di evitare i conflitti, quasi temesse di non riuscire a riscattarsi da uno stato di subalternità reale, presunto o indotto che sia).

(Occorrerebbe che, avendo riflettuto sulle interessanti tesi avanzate da Dopo il Turismo di Lucia Tocci, e semmai consultato il paradigmatico Orientalism di Said, qualcuno scrivesse una dissertazione sul ‘malocchio del turismo’, inteso come sguardo invidioso e rapace del turista-colonizzatore che non solo soggioga, stravolgendolo, il proprio oggetto di contemplazione, ma rende talmente dipendenti i colonizzati dall’altrui ammirazione che essi prendono a dubitare della possibilità di una propria esistenza indipendente. Se analizzato in questa chiave, piuttosto che risorsa economica indispensabile al futuro del Bel Paese, il turismo si mostrerebbe nella sua capacità di indurre alla depressione, se non alla dimenticanza, di checchessia di ereditario o nativo si conservi nei luoghi ospitanti. Similmente, se ci si accingesse a scrivere una storia della coscienza storica dell’arte in Italia, bisognerebbe valutare con cautela l’apporto offerto a tal fine da quei viaggiatori, conoscitori e storici che, dalla fine del Settecento in poi, si spostano in lungo e largo nella Penisola dissotterrando documenti, scoprendo tesori nascosti e opere di artisti dimenticati. La loro impresa, senza dubbio meritevole, è, per quanto curioso possa sembrare, inversamente proporzionale a una quiescenza discorsiva nei territori frequentati. Tanto che, dopo Luigi Lanzi e Leopoldo Cicognara, bisognerà attendere molti decenni prima che gli scrittori italiani smettano di limitarsi allo scrutinio dei soli archivi, lasciando agli “stranieri” il compito di raccontare la storia e il significato del loro patrimonio artistico).

Ritornando a Genius Loci, è rimarchevole che tra la base di lancio scelta da Chiodi e le pagine in cui egli si avvia a prospettare delle conclusioni si stabilisca un implicito rapporto di complementarietà. Laddove il capitolo 1 illustrava la dissolvenza del genius loci e giustificava il proposito di trattarlo come un mito, il capitolo 7 amplifica e riposiziona quell’assunto, vuoi grazie ad un’analisi dell’arte italiana degli ultimi due decenni vuoi riallacciandosi ai nuovi problemi che riguardano le pratiche culturali in un mondo galvanizzato da un’incessante proliferazione, comunione e confusione di dati. In questa fase finale del libro, entrano in gioco dall’anti-monumentalità delle opere di Cattelan all’inappartenenza o dicotomia tra esilio e patria teorizzata da Agamben, dalle stranianti periferie urbane fotografate da Ghirri al paradigma della teoria postcoloniale. Non c’è, evidentemente, una simultaneità tra le prime e le ultime pagine, ma se nel corso della lettura si avverte che entrambe sono indispensabili per descrivere il genius loci è perché una sorta di avatar cognitivo permane sullo sfondo a dirigere il traffico dal capitolo 1 al 7.

Infatti, nel suo insieme, Genius Loci si avvale di un propellente identificabile nell’impalcatura teorica alla base della transavanguardia; quest’ultima avrebbe difficilmente retto senza i puntelli della doxa post-strutturalista (Barthes, Derrida, Foucault, Lacan etc.): senza dare per ormai scontate l’arbitrarietà del segno, l’abiura di qualsivoglia tipo di essenzialismo, la necessità di smontare la metafisica della presenza e diffidare infine degli appelli alle agentività umane. Appena migra da Parigi a New York, quella doxa si insedia nei campus universitari provocando una scossa di notevole magnitudo nell’ambito delle cosiddette humanitas. Di più: il credo post-strutturalista muta sensibilmente allorché autori come Bhabha, Spivak e tanti altri se ne appropriano al fine di teorizzare le inedite condizioni culturali e identitarie emergenti in ragione dell’enorme incremento del numero di individui in transito sul pianeta alla ricerca di opportunità di vita e lavoro in luoghi spesso lontanissimi dai paesi di origine. Le nuove realtà postcoloniali e multiculturali non solo generano innumerevoli forme di ibridazione, incroci di linguaggi e mentalità, zone di contatto e/o conflitto tra mondi eterogenei, ma impongono un ripensamento del genius loci che diviene inconcepibile se non ci si sbarazza di dualismi tipo quelli di soggetto e oggetto, spazio fisico e mentale.

Laddove la poetica transavanguardista incitava al disimpegno, se non a bearsi nella narcisistica esibizione di un sé fabbricato ad hoc per lo sguardo dell’altro, la teoria postcoloniale aborre gli specchi e predilige quale arena di lotta per il riconoscimento un dominio transnazionale dove il sé e l’altro da sé, indefinibili a priori, scaturiscono grazie ai processi di scontro e/o negoziazione in atto. Nel corso di tale lotta, però, restano decisivi la polisemia e il camouflage, le contaminazioni tra folklore e culture elitarie, l’amalgama di tradizioni locali e aspettative globali. Una volta agganciato Genius Loci a questa recente postazione discorsiva, Chiodi può chiudere il cerchio e riprendere il tema della nostra identità o post-identità nazionale richiamandosi, tra l’altro, alle tesi di Bhabha secondo il quale una cultura è uno spazio di enunciazione ambivalente che non tollera l’imposizione di gerarchie o la pretesa di autosufficienza e originalità.

I lineamenti di un’identità post-identitaria vengono abbozzati argomentando che una riconsiderazione dell’arte e della cultura realizzate in Italia negli ultimi tempi, anziché valorizzare radici e invarianze, dovrà cogliere gli intrecci tra la cultura nazionale e le altre culture. Solo un racconto plurale riuscirà a delucidare la biunivocità dell’esperienza italiana al di là della sua continuità territoriale. Da qui l’urgenza di percepirsi e lasciarsi percepire in negativo. La succitata non italianità dell’arte italiana è auspicabile e il rafforzarsi di questa nuova fisionomia dipenderà dal suo «lasciar intravedere un’identità non autoritaria, non orientalizzata, non nostalgica, non mitologica, non consumabile». È in questa dimensione di «impura molteplicità», preannunciata ai tempi della transavanguardia ma comprensibile nella sua complessità grazie ad esperienze artistiche e culturali più vicine a noi, che Genius Loci invoca a difesa di una patria dai confini positivamente indistinti uno spirito antitaliano quale «unico possibile genius loci».

Man mano che smonta alcune inveterate prerogative italiane, Genius Loci aiuta a scorgere un aspetto alquanto trascurato della nostra recente storia artistico-culturale. Dagli anni Sessanta in avanti, artisti e scrittori d’arte desiderosi di posizionare il proprio lavoro al di là dei confini nazionali hanno, seppure inconsapevolmente, forgiato delle interessanti modalità di confronto con il cosiddetto “estero”. Ciò è immediatamente verificabile nei discorsi della critica. Laddove Celant introduce i “poveristi” nell’arena internazionale, da un lato valorizzando i loro tratti specifici e dall’altro accostando le loro opere e quelle dei minimalisti americani, Bonito Oliva pone in primo piano la particolarità e la differenza – il genius loci – che però si mostrano talmente tinte di manierismi da comprometterne volutamente l’integrità. Chiodi eredita questa breve storia di autoposizionamenti e si inserisce in essa appunto con la sua decostruzione del mito di un’arte “italiana”. Genius Loci ritaglia uno spazio di teoresi che gli permette di auspicare un’ulteriore fase, più smagata, in cui opere e autori italiani possano avventurarsi su di una strada post-identitaria. Il suo è quindi il terzo di tre schemi esegetici nei quali, nonostante le diverse angolazioni da cui viene scrutata o descritta, l’identità dell’arte italiana è, o diviene, tale a patto di allentare l’attenzione nei riguardi del genius loci: implicarlo con moderazione, adottarlo come una maschera, oppure demistificarlo.

In ciascuna delle tre fasi trapela la presenza di tensioni tra motivi ispirazionali interni e sollecitazioni o pressioni di tipo esterno, ma da questa dicotomia latente si evince una sorta di prefigurazione della situazione italiana. Proprio perché Paese spaesato rispetto a sé come rispetto all’altro da sé, l’Italia risalta tra le nazioni europee in quanto anticipa i rudimenti di un modus operandi che è diventato frequente negli ultimi decenni con l’avvento di quella che viene chiamata arte globale o globalizzata. L’espansione dei mercati dopo la fine della Guerra Fredda, l’incremento dei processi di diaspora e migrazione causato dal crollo degli imperi coloniali, sono alcuni dei fattori determinanti ai fini di un nuovo assetto che vede un crescente numero di artisti non-occidentali entrare nel sistema dell’arte mondiale. Integrazione e successo, però, pongono problemi non sempre risolvibili. Per esempio, siamo intorno al 1990, più l’arte contemporanea africana si deterritorializza e viene apprezzata all’estero e più tende a mutare in termini di forme e contenuti allorché molti dei suoi protagonisti lavorano nelle grandi metropoli dell’Occidente. In merito a queste metamorfosi, curatori quali Olu Oguibe e Okwui Enwezor denunciano il pericolo di un assoggettamento ai canoni occidentali, al gusto di una élite di collezionisti sedotti dall’esotico. Per non disancorarsi del tutto dai luoghi della memoria, rinunciando a priorità, convinzioni e linguaggi nativi, dovrebbero formarsi degli interstizi nei quali i segni introdotti dagli artisti da postazioni eterogenee verrebbero rielaborati e trasfigurati in una gamma di nuovi costrutti identitari.

A rischio di apparire disinvolti, si potrebbe avanzare che da circa mezzo secolo tanto le culture artistiche che vantano pedigree gloriosi e sono sostenute da una memoria di sé, quanto quelle dei popoli fino a poco tempo fa ritenuti, erroneamente, privi di storia condividano, seppur con i dovuti distinguo, un fato comune. Hanno da misurarsi con un inedito sincretismo che coinvolge un numero sempre maggiore di abitanti del pianeta rendendoli, prima di ogni cosa, dei cittadini dell’informazione, ovvero inclini ad aggiornarsi e aggiornare 24/7 un’inquantificabile massa di dati. Partecipare e rispecchiarsi in questo poliedrico insieme virtuale stimola ad accogliere la realtà non tanto nei suoi particolari quanto nelle guise di un tutto illimitato eppure stranamente pubblico e accessibile, il che evidentemente incide sia su abitudini e modi di pensare e lavorare della gente che sul contesto dell’arte. Infatti, mentre un sentimento del globale è rintracciabile in epoche lontane e casi di emulazioni, mescolanze e contaminazioni stilistiche ricorrono nella storia delle arti visive – la cui storicità diventa in parte ammissibile da quando si è preso a decifrarle e narrarle –, adesso è diverso. La mutazione di scala è tale che il bisogno di sentirsi integrati potrebbe restare frustrato se non ci si rendesse disponibili a relativizzare valori, significati e comportamenti. Non sorprende l’abbondanza di opere che ormai manifestano una mistura di tratti un po’ indigeni (africani, cinesi, russi etc.) e un po’ reminiscenti di una sorta di lingua franca acquisita nel sistema internazionale dell’arte contemporanea.

Il mantenimento di questo principio di realtà sincretica regge nella misura in cui le situazioni di carattere locale rimangono impercettibili nella loro intimità, difatti ignorate e ignote, a meno che non le si rettifichi e traduca in linguaggi o tecniche della comunicazione già socialmente condivise. Si riduce, cioè, la possibilità che la nostra esperienza del tempo possa variare assieme alla prospettiva che assumiamo localmente su un argomento, un affetto, un pensiero etc., proprio come l’esperienza dello spazio a sua volta muta con l’innescarsi di meccanismi di co-dipendenza tra la nostra identità soggettiva e la percepita pregnanza psicofisica di cose e luoghi, poco importa se l’esserci in situ sia materiale o immateriale.
Insomma, più la fenomenologia discreta del locale vacilla o si confonde nei flussi dell’informazione, più la figura del genius loci diviene opaca. È difficile dire se funzioni da moneta di scambio nel mercanteggiamento planetario, sopravviva in quanto vestigia del passato o rappresenti un mito di cui sarebbe bene fare a meno. In Genius Loci la decostruzione del mito è chiave per scoprire delle strutturazioni identitarie più idonee ai nostri tempi. Ma ciò non significa che giustizia sia stata fatta. Non potrebbe darsi invece che, proprio nell’era digitale di accelerazioni, mobilità e multiculturalismi, occorra ripensare il genius loci – una riconsiderazione a cui il saggio di Chiodi indirettamente contribuisce sgombrando il campo da invadenti equivoci – in quanto emblematico di un particolare intendimento della stanzialità?

Nell’antichità, presso i Greci e i Romani, un daimon o genio lo si poteva trovare sia nell’animo delle persone, sia in quello di qualunque località, che fosse un monte, un bosco, un fiume o una città. Si riconosceva ai luoghi una componente immateriale nonché la capacità di ospitare o lasciar nascere uno spirito, una deità locale che personificasse degli elementi naturali. Vi erano vari tipi di genius loci: le Ninfe vivevano nelle fontane, nei ruscelli e nel mare; le Driadi erano spiriti degli alberi, dei boschi e delle foreste. Ma la deificazione dei luoghi può spingersi oltre. A suo modo, anche l’antro della Sibilla a Cuma è rappresentativo di una particolare ‘forza’ attiva e influente nelle persone che vi abitano o lo visitano (come nel caso di Enea al quale la sacerdotessa consiglia di procurarsi un ramo d’oro che gli consenta di tornare dagli Inferi). E ancora. In un famoso aneddoto, degli stranieri venuti a rendere visita a Eraclito si stupiscono di trovarlo in cucina mentre si scalda presso un forno, al che il filosofo risponde che anche lì abitano gli dei. Egli offre così una duplice testimonianza di come l’incontro con le deità possa avvenire anche in luoghi affatto ordinari e le località stesse trasfigurarsi allorché ispirano e/o accolgono pensieri ed emozioni. Secoli dopo, a questa vita segreta dell’esserci stanziale accenna anche Meister Echhart quando dice che, nella sua anima, Gerusalemme è «tanto vicina quanto il luogo in cui mi trovo». Tutt’altro che banale effetto di nomadismo cerebrale, questa vicinanza prevede un’ubiquità del significato della città santa la cui pregnanza spirituale è tale da azzerare le distanze e stabilirsi altrove mantenendo la medesima intensità.

Che riguardi località, individui reali o personaggi immaginari, il genius loci presso gli antichi implica il configurarsi e il mantenimento di un’identità garante ai fini di una continuità affettiva e cognitiva dei singoli come delle comunità. L’animismo favorisce la relazionabilità vuoi perché si innescano dinamiche di territorializzazione e deterritorializzazione che intrecciano deità e persone, geografia e tratti caratteristici della specie homo sapiens, vuoi in quanto un genius loci può fungere da sito di collettiva aggregazione identitaria nei momenti di trasformazione e cambiamento. Ma c’è di più. Questo diventare cosale o sensibile di elementi extrasensibili attraverso un processo di riconoscimento, deposito e accumulazione di affetti e concetti, presenta un’analogia con il modus operandi tipico dei saper fare creativi: così come le opere di un poeta, un narratore, un artista visivo introducono valori, verità e intenzioni di senso che si direbbe ambiscano a tramandarsi ora e ancora, il genius loci parimenti ignora rigide causazioni cronologiche. Assieme ai fenomeni artistici, è da annoverarsi tra le prime, fantasiose, postulazioni di vere e proprie realtà psichiche sussistenti dentro e oltre un milieu e ciascuna con misure temporali e qualità sue proprie.

L’allusione alle ‘realtà psichiche’ ci riporta all’ipotesi di una concreazione di pensieri e materia, all’influenza che la nostra specie esercita sull’equilibrio geologico della Terra e alla scarsa consapevolezza di come l’arte possa incidere nella vicenda umana. A questo punto, è possibile interpretare questi interrogativi e la processione di pensieri formatasi dopo la lettura di Genius Loci come un invito alla prudenza: a non dismettere qualcosa solo perché ci appare opaca o inadeguata rispetto alle esigenze del momento. È quest’ultima, infatti, una tentazione a cui il saggio di Chiodi spesso cede anziché resistere.
Viene in mente un proverbio inglese che ammonisce a ‘non buttare via l’acqua sporca assieme al bambino’. Nel nostro caso, l’acqua sporca è evidentemente l’autocompiacimento patriottico, che talvolta ha malcelato la subalternità culturale dell’Italia, nonché la pretesa di misurare le attività dell’arte e della cultura servendosi del metro della nazione-stato.

Il bambino da salvare è, invece, il genius loci nella sua cogente implicazione che gli stimoli percettivi e l’attitudine a deificare l’ambiente in cui viviamo non siano semplicemente qualcosa di sorto o motivato internamente in noi, ma costituiscano anche un evento di sensibilizzazione verso atmosfere e significati indipendenti dai nostri stati mentali coscienti.
Se si getta via il genius loci assieme alla vanagloria e ai velleitarismi che ha fomentato, ci si preclude la possibilità di pensare il dominio del locale come un’area inestricabile da entità pregne di proprietà sensibili, sovrasensibili oppure composte di entrambe. Analogamente, ci si preclude la possibilità di pensare i fenomeni artistici in quanto esempi di territorialità autonome, governate da qualità e volizioni che appaiono fuori legge, refrattarie ai diktat del sincretismo e di una incontrollata moltiplicazione di informazioni. Entrambe, l’arcaica invenzione del genius loci e la millenaria pratica dei saper fare creativi, ispirano a considerare che un’agentività artistica avrebbe poca importanza ai fini della sopravvivenza della specie senza assumere che il mondo e la natura siano dei milieu di emozioni e contenuti che stimolano e pongono richieste a un artista. Oltre al grado di expertise di quest’ultimo, è la sua parte umana a intervenire interagendo, ridefinendosi e co-originandosi con l’habitat mediante la creazione di nuovi valori.

Nel rivelare una rimarchevole somiglianza con gli attributi di autonomia, astanza e vita propria a volte conferiti alle opere d’arte da artisti e scrittori, la figura del genius loci descrive una postazione ma anche, e simultaneamente, un’occupazione territoriale e un’esperienza di posizionamento nello spazio come nel tempo e nella storia. Nomina habitat, forme e cose che andrebbero percepiti alla stregua di un organismo complesso capace di emergere all’interno di una gamma di scale temporali, eredità indigene e memorie del futuro e quindi dotato di un incalcolabile numero di velocità con cui segni e persone si uniscono e/o disgregano.
È opportuno segnalare la presenza di simili intoppi perché l’impianto concettuale di Genius Loci può facilmente indurre a sottovalutarli. Il patrocinio del post-strutturalismo e delle sue ramificazioni in alcune teorie postcoloniali comporta degli obblighi: l’unicità e la natura creaturale del genius loci devono cedere il passo alla differenza, al nomadismo, al frammentario e all’impuro. Tuttavia, mentre è imperativo emancipare concetti quali quelli di identità da abiette manipolazioni e adoprarsi al loro superamento, non è chiaro come l’affrancamento possa compiersi, se basterà sradicare ogni colonialismo e incrementare mescolanze di segni, trasversalismi e intrecci tra culture.

In questi anni, il multiculturalismo è giustamente servito a combattere autoritarismi, smascherare le subdole riproposizioni del razzismo e rivendicare dignità e pari opportunità di vita per tutti gli abitanti del pianeta. L’esito di queste lotte, però, è alquanto dubbio, anche perché nel frattempo hanno fatto perdere di vista delle realtà più complesse attinenti alla disuguaglianza tra le classi e il sistemico impoverimento di molti a vantaggio dei pochi. Infatti, non molto dopo la sua comparsa, la politica multiculturale sembra essersi fatta cooptare dall’ideologia neoliberista nella sua capacità di attrarre nell’orbita del “primo mondo” sempre più individui, tra cui non solo migranti extra-occidentali, in un’escalation di scambi tanto commerciali quanto culturali dove prevale la logica del profitto e perdurano le diseguaglianze sociali da essa incensate e comprovate. Sono simili fattori ad aver favorito, tra l’altro, l’euforia mercantile e l’apertura verso espressioni artistiche ibride di cui è divenuto propugnatore l’apparato dell’arte contemporanea fin dagli anni Ottanta. La difesa delle differenze e della mobilità non sfocia necessariamente in nuove forme di democrazia, può anzi acuire tensioni, competizione e guerra di tutti contro tutti inquadrando infine le moltitudini sotto la cupola di un tempo univoco e totalizzante. Affinché le identità non scadano in qualcosa di meramente spendibile e consumabile, forse bisognerebbe prestare maggiore attenzione a quel che stride con la mentalità dominante nel mondo del sincretismo.

Ci si riferisce all’assolutamente stanziale, a ciò che perdura così com’è e, di generazione in generazione, può rinnovare il senso vuoi di una permanenza vuoi di un perfezionamento di una gamma di quid significanti che, proprio come ci hanno preceduti, potrebbero restare dopo di noi e addirittura ispirare la creazione di nuove forme di stanzialità. Il genius loci è un esempio archetipico di tale condizione, così come, a un livello molto più complesso, lo sono alcune opere d’arte. Di più: entrambe condividono il paradosso che, nella loro sfera, la stanzialità e la plasticità non si escludono a vicenda. Tanto quanto il genius loci appare animato e plasmabile allorché si contempla il suo carattere stanziale, parimenti le opere guadagnano una loro stanzialità spazio-temporale a patto che le si riconosca dotate di una vita interna, quali entità uniche che avrebbero potuto essere o non essere o essere totalmente diverse da quel che sono.

C’è da restare grati a Stefano Chiodi perché le peripezie del genius loci da lui descritte permettono di capire come la stanzialità non solo sia passibile di mistificazioni, probabilmente facilitate dalla sua occulta natura plastica, ma possa anche diventare oggetto di una sistemica rimozione, finendo con il rappresentare la parte innominabile di un mondo che la teme in quanto destabilizzatrice dei suoi principi-cardine di mobilità, (ri)produzione di beni e illimitata crescita economica. D’altro canto, però, le vicissitudini del genius loci segnalano anche e soprattutto l’urgenza di approssimarsi concettualmente a quell’innominabile, provando a comprendere la vita segreta dello stanziale e quindi intenderlo non più in termini di paralisi e incitamento al passivo conservatorismo. La sua è una zona assolta da dimensioni predefinite e pertinente tanto al campo della materia quanto a quello delle idee. Da un paesaggio o da un teorema, da un chip o un’architettura regale, da un dipinto o una persona, si può ricevere una conferma di come le realtà psichiche siano pregne di esperienze e cognizioni che disconoscono l’arbitrarietà dei segni e aspirano a fissarsi in forme e significati che nessuna interferenza possa scalfire, né alcuna manipolazione monetaria o ermeneutica sminuire.

Una volta letto Genius Loci è naturale spingersi oltre e chiedersi se, in un mondo globalizzato e post-occidentale – oltre che postcoloniale –, una critica d’arte militante possa mai risorgere e se detta resurrezione non debba avvenire in ambiti locali senza però accontentarsi di dare voce a dei contenuti supposti periferici. Occorrerebbe forzare il limite così da ridisegnare ad hoc i rapporti tra centro e periferia, tra valori indigeni e tensioni cosmopolite. Ancora una volta il territorio “italiano” può fungere da banco di prova. Dalla storia della sua volubilità culturale si raccoglie un’indiretta conferma del bisogno di inaugurare un nuovo corso introspettivo in cui poter riconoscere le agentività umane nella loro duplice facoltà di farsi e disfarsi senza riflettere alcuna aprioristica essenza. Non più quindi rigida ma nemmeno plurima e cedevole quasi come se il suo destino fosse quello di disseminarsi all’infinito, semmai sfoggiando le forme minori di un manierismo multiculturale, l’identità potrebbe lasciarsi intravedere nelle sembianze di entità che emergono precisamente in quanto appaiono sottratte e inintelligibili se le si osserva con le lenti uniformanti del tempo unico e accentratore. La loro nascita avverrebbe infatti in un luogo per il quale non ci sono (ancora) strumenti utili a calcolare vicinanze e lontananze. Forse è proprio immaginandosi simili località che gli antichi presero a parlare di genius loci. E forse, così facendo, ci hanno consegnato i rudimenti per figurarsi la Terra stessa come un unico genius loci, il cui cosmico equilibrio di rotazioni e rivoluzioni è l’espressione di una stanzialità irrinunciabile nello sforzo collettivo per sostenere la vita sul nostro e su altri pianeti.