Recensioni / El critoleo del corpo fracassao. Litànie a la memoria de Pier Paolo Pasolini, edito da Quodlibet. Un capolavoro del Novecento.

Era ancora calda la data dell’assassinio di Pier Paolo Pasolini (ne scrissi ai tempi su “Fermenti” 1975, rivista di Roma), nella notte tra il 1 e il 2 novembre del 1975 che il poeta Biagio Marin pensava di scrivere un poemetto in sua memoria. 13 liriche scritte nel dialetto di Grado, lucida e vera lingua della poesia. Marin era legatissimo a Pasolini, a lui spettava il riconoscimento della sua opera poetica. Quel poemetto dal titolo El critoleo del corpo fracassao. Litànie a la memoria de Pier Paolo Pasolini , fu pubblicato l’anno dopo nelle edizioni All’insegna del pesce d’oro di Vanni Scheiwiller; e quasi introvabile, nonostante una riedizione del 1995, lo troviamo oggi riproposto con l’aggiunta di una traduzione in italiano unitamente all’accompagnamento di diverse pagine d’argomento pasoliniano tratte dai diari inediti di Marin. Di qui il doppio titolo, in dialetto e in italiano: Lo scricchiolio del corpo fracassato (Quodlibet), curato e tradotto da Ivan Crico, con un saggio di Pericle Camuffo. Il 6 novembre 1975, giorno dei funerali di Pasolini a Casarsa, Marin annota nel suo diario: “Or ora ho scritto alcuni miei poveri versi, per tentare di liberarmi dalla pena che ho in cuore, provocatami dall’episodio della sua morte, dal modo della sua fine. Quel diciassettenne che non si è accontentato all’abbatterlo, ma passa con l’automobile sul suo corpo ancora vivo, per finirlo del tutto, e lo schiocca e l’uccide, chi era? Che cosa era?”. I “poveri versi” in questione sono uno dei vertici della poesia dialettale del Novecento: El critoleo del corpo fracassao , ora è pubblicato e accompagnato per la prima volta dalla traduzione italiana di Ivan Crico. In tredici densi, luminosi componimenti in quartine rimate, la memoria del poeta assassinato viene restituita al dolce paesaggio della terra friulana e lo scricchiolio del corpo fracassato si ripercuote nel ritmo cadenzato di una indimenticabile litania, dove “il mio canto col tuo si confonde /… il mare è uno, con le sue tante onde”. Riguardo alla parola del titolo, che rimanda ovviamente allo scempio del corpo del poeta assassinato, veniamo a sapere ad esempio che “il termine critolèo indica, precisamente, lo scricchiolio continuo che si sente calpestando sul bagnasciuga le conchiglie”. Il poemetto svela due grandi funzioni rituali e narrative, anzitutto il ritorno all’origine, al paese, ai luoghi degli avi; e poi il successivo che coincide con l’esistenza, ovvero il ciclo della perdizione e della salvezza, del peccato e della redenzione. In epigrafe Marin riporta non a caso una massima di San Paolo che pone la vicenda disegnata nel Critoleo sotto il segno appunto della colpa: “Poiché chi è morto è, per diritto, affrancato dal peccato”. Tredici poesie, tredici preci, tredici litanie, vere, catturanti, esemplari, affezionate, versi delicatissimi, partecipanti. Ecco i versi che riguardano il ritorno del poeta in Friuli dopo la morte (Pasolini fu sepolto a Casarsa e Marin partecipò ai funerali); un Friuli primaverile e bianco, una sorta di paradiso com’era stato rappresentato nei versi friulani giovanili dello stesso Pasolini. Paolini è l’usignolo che ritorna in queste liriche: “L’alegra vogia/ dei canti tovi d’usignolo” (“L’allegra voglia/ dei tuoi canti d’usignolo”). E ancora: “Sesso sfrenao, xe stao/ un mortai ritornelo” (“per te il sesso sfrenato / un mortale ritornello”), “pùo tu t’ha perso/ in un mondo lontan, perverso” (“poi tu ti sei perso / in un mondo lontano, perverso”), o ancora: “Tu, de l’amor de femena estromesso” («tu, dall’amore/ della donna estromesso”). Biagio Marin aveva salutato Pasolini a Casarsa, il giorno del funerale, “la giornata era bella, solare… in una cappelletta trecentesca era esposta la casa chiusa che raccoglie i resti pietosi del grande poeta e del grande folle che è stato il caro fine Pier Paolo”.

In appendice sono pubblicati alcuni “estratti dai diari inediti” di Marin, per merito di Pericle Camuffo: il poeta solleva un altare per l’amico, con un saluto dolente, cornice dell’altezza del libro; pagine che svelano il patimento privato di Marin intorno alla morte di Pasolini, una ferita aperta e incolmabile, uno squarcio doloroso, un sanguinamento del corpo e dell’anima. “La sua pederastia è stata la ragione della sua rovina”, scrive Marin, il 3 novembre del 1975. E poi: “La vita sua era preziosa per tutti, era una ricchezza comune. L’abbiamo perduta. E in così malo modo”; “Mi ha trattato sempre con rispetto e affetto, pur sapendo che io avevo limiti da piccolo marginale, e che ero lontano dal suo marxismo e dalla sua pederastia, che gli è costata la vita”; “A me sembra molto maggiore di un Montale, di un Ungaretti. Era più vivo di loro. La sua pederastia gli è costata la vita, e ha adombrato la sua opera”; “C’erano in lui due poli, molto contrastanti. La sua tragica fine, ne è stata il risultato; ma anche la liberazione dal contrasto”. Marin tende a un’armonia impossibile se misurata da sarto su Pasolini omosessuale. “Ha scritto troppo, ha voluto troppo, è stato un rivoluzionario che ha voluto abbattere e sostituire troppe cose del nostro mondo. Molte sue opere non sosterranno l’usura del tempo; ma la sua azione rivoluzionaria lascerà il segno in tutta la nostra così torbida vita”, scrive l’11 dicembre del ’75. “Pier Paolo Pasolini era un grande intellettuale; io sono solo una animucola di provincia. Pier Paolo Pasolini aveva in sé una vitalità, una forza di lavoro, una forza creativa, che io non saprei neanche sognare”. “Su la linea del canto semo nûi”: “sulla linea del canto siamo nudi”. Pasolini muore il 2 novembre; Biagio Marin conclude il suo canzoniere in tredici poesie il 12 novembre 1975. E’ il mese dedicato ai morti ed è il dialetto la lingua principe di questa litania, versi sciolti in un pianto senza fine, dove tutto è messo a nudo, e il canto sale in cielo fino alla luna e alle stelle. La figura di Pasolini si staglia nei versi di Marin sullo sfondo del suo Friuli: “Nostra tera furlana, / la più bela che sia, / dolse la to magia, / che tien l’anema sana”. Ne scaturisce un ritratto dolce e commosso: “Tu geri fin e mite, / esperto de le carte/ e d’ogni arte / de le legi ne la coscienza fite. La to vose in surdina / l’aveva el son del celo, / suadente ritornelo/ d’un’anema fina. Umile gera el to discorso / e mai imperioso: / musica suso e zoso, / rogia dal dolse corso”.