Recensioni / Gianni Celati, dialettica della solitudine

[E’ scomparso questa notte Gianni Celati. Iniziamo a ricordare la figura del grande narratore ripubblicando un intervento di Andrea Cortellessa, comparso su Le parole e le cose il 26 gennaio 2020]

In una delle spesso irresistibili spigolature raccolte in Storie vere e verissime (da poco uscite per La nave di Teseo), il complice di sempre Ermanno Cavazzoni racconta – parodiandolo con affetto – le sue Avventure con Celati. Fra le altre il momento in cui, irritatissimo colle gerarchie accademiche, questi piuttosto avventurosamente dà le dimissioni dall’Università di Bologna, dove a lungo aveva insegnato Letteratura angloamericana. «Ma adesso cosa fai?» gli chiede l’amico, per tempo imboscato a sua volta in Via Zamboni e, senza darlo a vedere, un po’ sulle spine. Allora Gianni alza gli occhi, ancora un po’ incazzato ma – c’è da scommettere – con un sorriso: «Voglio guadagnarmi il pane onestamente». Era il 1992: Celati aveva 55 anni e alle spalle un grande libro di saggi, Finzioni occidentali, che nel ’75 aveva illustrato le due tradizioni di quello che (spesso a torto) chiamiamo «romanzo». Da un lato il novel “serio” e costruttivo, à la Defoe, che dell’essere umano illustra la vocazione sociale, economica, pratica; dall’altro una tradizione più carsica e zigzagante, “minore” e atrabiliare: che dello stesso essere umano incarna viceversa la sociopatia e l’inadattabilità, i comportamenti nocivi e i cattivi pensieri.

Dieci anni prima, nel ’66, aveva esordito nella saggistica traducendone un archetipo, la Favola della botte di Jonathan Swift. L’introduzione s’intitolava Swift l’antenato: e convocava i “discendenti” – da Joyce, Céline e Beckett a Gadda e Manganelli – di quella «macchina eversiva» che smembra la narrazione tarlandola di apologhi e dialoghi, divagazioni saggistiche e sfoghi isterici. Il testo come macchina, appunto: non però quella oliata ed efficiente del novel (che ancora oggi, orribilmente, si dice «funzionare»), bensì una paradossale macchina dissipativa che produce senso mediante il proprio attrito linguistico e strutturale. Tutto questo s’iscriveva per Celati sotto la categoria del «comico»; e infatti l’anno prima era apparso, su una rivista della neoavanguardia, il primo lacerto di quello che sarà il suo esordio di scrittore: e che nel ’71 – con la malleveria di Calvino, ma in una collana einaudiana diretta giusto da Manganelli insieme a Sanguineti e Davico Bonino – s’intitolerà, appunto, Comiche.

Da quel momento in poi discorso narrativo e saggistico s’intrecceranno sempre, dando vita alla più acuta autocoscienza letteraria che, da noi, abbia contrassegnato lo snodo cruciale che dal modernismo ci ha portato al tempo che gli ha tenuto dietro. Dopo lo scisma dai dispositivi di autogaranzia intellettuale della macchina accademica, «guadagnarsi il pane» ha significato per Celati, in concreto, mantenere un atteggiamento, più che da studioso, da studente: che gli oggetti d’affezione (come li chiama, alla maniera dei surrealisti) della propria genealogia cura con assiduità amorosa, di volta in volta e a più riprese traducendoli, commentandoli, antologizzandoli. Le introduzioni ai classici della “sua” disciplina (ma anche a quelli di una certa tradizione francese; e peccato manchi un’incursione importante in quella tedesca, le Poesie della torre di Hölderlin tradotte nel ’93) erano da tempo una piccola leggenda, che noi «intrampani universitari» (come ci ingiuria un racconto di Cinema naturale) coltivavamo passandoci sottobanco fotocopie impolverate e tutte sottolineate: la loro sospirata raccolta da parte di Jean Talon – che segue una parallela silloge sugli “antenati” italiani, Studi d’affezione – è una vera festa.

Bellissimo il titolo, Narrative in fuga. Si emancipa polemicamente dalla tradizione “seria”, s’è detto, la contro-tradizione dissepolta da Celati con lo scrupolo e l’emozione di un cercatore d’oro del Klondike (dall’«irruenza avventurosa» di Stendhal alla «furia dello sproloquio» di Céline; dal «mormorio della vita interna» di Michaux all’«atarassia già post-moderna» del Perec più sonnambulico; dalla «verità dell’incoscienza» di Gulliver al «viaggio senza meta» della Favola della botte – ri-tradotta nel ’90 –, sino alla «narrativa di visioni» di Flann O’ Brien e al «disordine delle parole» nell’Ulisse di Joyce: alfa e omega, oggetto della tesi di laurea nel climaterico ’63 e, mezzo secolo dopo, della traduzione integrale per Einaudi).

Ma lo stesso Celati mette a fuoco pure come proprio la «fuga» dei personaggi dalla «prigione» della «vita sociale», la «diserzione» dai «compromessi dell’uomo borghese», sia il pattern tematico e insieme l’ordine ritmico che collega tradizioni narrative, fra loro, anche così distanti. «La diversità è la mia legge!», bercia Céline; e sono tutti asociali terminali, vagabondi lunatici ossessionati dal «fuori», i «solitari» americani della bellissima antologia curata insieme a Daniele Benati nel 2006: dal Wakefield di Hawthorne all’Uomo della folla di Poe, dal Richiamo della foresta di Jack London all’ammutolirsi dei reduci di Hemingway. Il loro santo protettore è Bartleby, lo scrivano dell’omonimo racconto di Melville che a lungo ha ossessionato Celati: sino a una leggendaria edizione che nel ’91 allineava pure, in appendice, un’antologia di ben 88 diverse interpretazioni con puntiglio riassunte (e il più delle volte contestate). Nello stesso periodo ci si accaniva anche Giorgio Agamben, che vi vedeva la figura della vita «qualsiasi» (ossia quodlibet: «I’m not peculiar», dice lo scrivano, vero uomo senza qualità la cui stramberia si rivela segno, così, del suo «essere speciale»: perfetto rappresentante della nostra specie, ovvero – aveva detto qualche anno prima Gilles Deleuze – «il nuovo Cristo, o il fratello di noi tutti»).

Il silenzio è il destino di Bartleby, che s’incammina verso l’ultima tule della solitudine; ed è la sigla di quella che, percorrendo l’immaginario di Celati, ci appare una vera dialettica della solitudine. Vocazione del solitario – quello che campeggia nei paesaggi “alla Luigi Ghirri” della sua “seconda maniera” narrativa, in testi come Verso la foce o Quattro novelle delle apparenze – è quella di fuggire dall’in-differenza della «folla» (la «folla solitaria», come la chiamava già certa sociologia d’antan) isolandosi nel Fuori, ma solo per scoprire che il Fuori (come quello della Follia, «campo di enigmi che si estende dovunque intorno a noi»: che attrae lo Swift clinico osservatore di manicomi come il Celati che nelle more di Comiche trascriveva i deliri dei ricoverati; il Fuori che fagocita lo Hölderlin fattosi Scardanelli) è una forma ancora più radicale di in-differenziazione: disumano spazio neutro, grigio e spopolato, come quello delle isole Encantadas negli estremi racconti di Melville. «La solitudine si rivelava», conclude Celati la sua introduzione a Bartleby, «un’anticipazione decisiva della morte». Quel silenzio è figura della dissoluzione nell’indifferenziato fuori di noi: «un mondo dove tutto, essendo volatile come le parole», si legge sul finire dell’introduzione alla seconda Favola della botte, «è sempre sul punto di perdere significato e svanire all’orizzonte come le nubi in un giorno d’estate». Uno spazio vuoto e silenzioso dove restano solo il vento e l’erba che cresce: una natura leopardianamente indifferente, proprio come quella che campeggia alla fine di Bartleby. A quel silenzio oggi è condannato – per ironia di una sorte che raggela ogni sorriso – il maggior scrittore italiano vivente.

È un tesoro il numero di «Riga» (40 della serie, a riprendere e arricchire i materiali di un precedente fascicolo del 2008) dedicato a Gianni Celati e curato da Marco Belpoliti (già curatore nel 2016, insieme a Nunzia Palmieri, del «Meridiano» dedicato a Romanzi, cronache e racconti) con Marco Sironi e Anna Stefi (Quodlibet, pagg. 509, € 28). Come da tradizione, a materiali inediti e rari dell’autore cui è dedicata la rivista (miracolose le dieci pagine di un inedito Taccuino siciliano risalente al 1984; otto folgoranti interviste e un importante corredo di immagini) si affiancano articoli storici a lui dedicati, e saggi composti per l’occasione.

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