Recensioni / Ellen West. Il fantasma che tormenta la psichiatria

«Giorno e notte mi perseguita lo stesso pensiero. Il pensiero del cibo. In forme sempre diverse, ma sempre presente. Sì, come l'immagine della vittima perseguita l'assassino. Se ho fame o se sono sazia, se riposo o se lavoro: il pensiero del cibo sta sempre davanti a me. Mi succhia il midollo e mi rende l'esistenza insopportabile». Così Ellen West nel novembre del 1920. Suicida a 33 anni, una delle pazienti più famose della psichiatria, Ellen West ha un nome inventato, quello vero è ancora un segreto. Pare che il suo medico, il luminare svizzero Ludwig Binswanger, massimo esponente dell'analisi esistenziale e della psichiatria fenomenologica, scrivendo di lei a più di vent'anni dalla morte l'abbia scelto sulla scorta del personaggio di Rebecca West nel dramma di Ibsen Rosmersholm. Ad aggiungere drammaticità al dramma, e dolore al dolore, c'è un altro suicidio nella vita di Binswanger: quello del figlio maggiore, nel 1928. Non c'è libreria di psichiatra che non ospiti il testo binswangeriano sul caso Ellen West. La mia edizione Bompiani risale al 1973, per la cura di Danilo Cargnello, ora fuori catalogo: oggi l'edizione di riferimento è quella curata da Stefano Mistura per Einaudi. La letteratura sul caso West è infinita. Ora siamo qui per un libro di Antonella Moscati, traduttrice e saggista, con un titolo forte e programmatico: Ellen West. Una vita indegna di essere vissuta (Quodlibet).
Prima di occuparcene è bene dire due parole ad uso di lettrici e lettori su Ellen West e Ludwig Binswanger. Di famiglia ebrea, una famiglia profondamente segnata dal disagio psichiatrico, Ellen nasce negli Stati Uniti nel 1887 ed emigra in Europa all'età di 10 anni. Studentessa appassionata, scrive poesie e riflessioni e ha una "idea fissa": il suo corpo non deve ingrassare. Qualunque cosa pur di rimanere magra, anche lassativi, decine di compresse al giorno: chi conosce la clinica dei disturbi del comportamento alimentare sa che le cose vanno (anche) così. A 30 anni diventa vegetariana. Sposa il cugino, non sappiamo se per amore, e rimane incinta: la gravidanza finirà in un aborto spontaneo. Molti i tentativi di suicidio. Visitata da molti psichiatri, prima di incontrare la clinica di Binswanger a Kreuzligen e il suo metodo di "analisi esistenziale", intraprende due analisi, con von Gebsattel e poi con Hattingberg. Due esperienze disastrose: sul principio di cura prevalgono i problemi, personali e teorici, degli analisti.
Nevrosi ossessiva, depressione, schizofrenia, le diagnosi si accavallano, lontane dal quadro clinico che con gli occhi di oggi possiamo intuire: anoressia nervosa (sottotipo con abbuffate e condotte di eliminazione) in disturbo borderline di personalità. Ma proprio sulla diagnosi è il momento di ascoltare la voce di Ellen. Marzo 1921, durante una passeggiata col marito (il corsivo è mio): «Un nome per la malattia non lo conosco. La si può chiamare nevrosi ossessiva o chissà come, in ogni caso è un difetto mentale in un punto preciso. La diagnosi di melanconia è insensata. E certo che ora ho avuto una melanconia, e che ancora ci sono dentro, anche se sta chiaramente regredendo; ma l'essenziale è il difetto mentale. Avrò sempre un'inclinazione alla malinconia, a qualcosa di maniacale. Questo non farà che accrescere le mie sofferenze, ma non è determinante. Con il mio difetto mentale, invece, che tocca cose così vitali, io, Ellen F., non posso continuare a vivere».
Antonella Moscati rilegge la storia di Ellen West ribaltando una delle possibili prospettive: da paziente ad autrice. Lo può fare grazie a un volume uscito in Germania nel 2007 a cura di Naamah Akavia, giovane ricercatrice israeliana prematuramente scomparsa, e Albrecht Hirschmüller. Il saggio, di cui in Italia si era già occupata la psichiatra Annelore Homberg, raccoglie molti scritti di Ellen, pagine toccanti e coraggiose che raccontano con lucidità la malattia di cui sembra al tempo stesso schiava e padrona. Il merito del libro di Akavia e Hirschmüller, scrive Moscati, «è molteplice. Fornisce una notevole quantità di nuovi testi e getta una nuova, fosca, luce sulle posizioni, gli atteggiamenti e i pregiudizi di quanti le sono stati accanto durante la malattia». Il saggio di Moscati è dunque un "Anti-Binswanger" utile a mettere in discussione lo psico-patriarcato dell'epoca, che da un lato dava parola al dolore mentale delle donne ma dall'altro era incapace di ascoltarne la voce (pensiamo al caso freudiano di Dora). In questo senso, Ellen West. Una vita indegna di essere vissuta s'inserisce in un filone di controlettura culturale della tradizione primonovecentesca della psichiatria e della psicoanalisi: come Soul Murder di Morton Schatzman, che ripercorre il caso freudiano del Presidente Schreber, o appunto come Ritratto di Dora di Hélène Cixous. E un peccato che Moscati trascuri il contributo dello psicologo umanista Carl Rogers che per primo (nel 1961 e poi nel 1980, anche lui con un bel titolo: Ellen West e la solitudine) scrive del caso West in polemica con Binswanger, rimproverandogli di averla reificata clinicamente, di aver ignorato il ruolo delle dinamiche familiari e di aver letto il tema suicidario come una fallimentare liberazione, un essere «nata perla morte». Ellen, infatti, dopo un ultimo consulto tra luminari - lo stesso Binswanger, Bleuler e Hoche - viene dimessa dalla clinica e lasciata al suo destino. L'accordo del marito Karl, subito entrato in un rapporto di profonda amicizia con Binswanger, era tacito. Ellen prende i barbiturici in sua presenza e lo protegge giuridicamente lasciando per iscritto che il marito non ne era al corrente. Con Moscato vale la pena di ricordare che Hoche l'anno prima aveva pubblicato un testo inquietante sulla necessità di eliminare «vite indegne di essere vissute». Erano gli anni di ascesa del nazismo e sul caso Ellen West si affaccia l'ombra della follia eugenetica. Al caso Ellen West, concludiamo con l'autrice, «non ci si può avvicinare senza provare la terribile sensazione di un torto, di una sottrazione crudele di cui lei è stata in parte il soggetto volontario, ma sicuramente anche l'oggetto involontario». Il silenzio imposto sul suo nome e sugli eventi essenziali della sua vita «ha fatto sì che tutto quello che si sa di lei, e in verità ormai non è poco, si sa di lei come di un'altra, come se fos se un' altra».