Recensioni / «Stile Alberto», ecco Arbasino e il suo mondo nel ritratto confidenziale di Michele Masneri

«Stile Alberto» di Michele Masneri (Quodlibet) è un ritratto confidenziale del grande Alberto Arbasino, mancato il 22 marzo di due anni fa, la storia di un «innamoramento letterario immediato» e del culto per il mondo arbasiniano. Le foto sono di Paolo Di Paolo, la copertina a cura di Francesco Vezzoli.

Tutto è cominciato da quell'incontro casuale con Arbasino, "precipitato" dallo scaffale di una libreria.
«Sì, è tutto verorisponde Masneri, giornalista e scrittore, nato a Brescia ma ormai stabilmente nella capitale - Studiavo Scienze Politiche a Roma e stavo preparando la tesi ( proprio sul Diritto del mare, materia che, avrei scoperto in seguito, anche Alberto aveva studiato, fino a diventare assistente del famoso professor Roberto Ago, luminare del diritto internazionale). Studiavo in una stanzetta con un'altissima libreria dove nell'ultima fila, molto in alto, credo per motivi alfabetici, c'erano i libri di Arbasino, e a un certo punto mi cascò in testa "L'anonimo lombardo", romanzo del 1959. E fu amore a prima vista». Il rapporto con lui? Dal libro si evince: di grandissimo rispetto e ammirazione, fonte di ispirazione letteraria. Non proprio di amicizia.
«No, infatti, diciamo che è stato il tentativo di un'amicizia, tra due persone con una grande differenza anche di età, io avevo trent'anni e lui ottanta. Lui è stato prima mio idolo letterario e poi quando ho avuto modo di conoscerlo, un signore che vedevo ogni tanto, a pranzo o a cena, e con cui era sempre istruttivo e divertente stare. E che metteva soggezione: un mito vivente».
Due personaggi del mondo arbasiniano, per così dire clamorosi per fama e grandezza, diversissimi tra loro: il primo è l'avvocato Agnelli, il secondo Truman Capote.
«Agnelli aveva parecchie cose in comune con Arbasino: intanto l'appartenenza al partito repubblicano, per cui Arbasino fece anche un mandato da deputato negli anni Ottanta. Poi l'amore per l'America, la dimensione internazionale. Uno dei consiglieri più fidati di Agnelli era Henry Kissinger, che fu anche professore di Arbasino in qualche corso estivo. Poi l'istitutore privato di Agnelli che era stato Franco Antonicelli, intellettuale antifascista di Voghera, amico di famiglia. E poi Truman Capote, il grande scrittore di "Preghiere Esaudite", che era amico di Marella Agnelli e con cui qualche volta andarono in vacanza tutti assieme. Crociere in barca in Spagna, cose così. Ma Capote non era molto simpatico ad Arbasino, il quale infatti ne fece descrizioni tremende. Forse era un po' invidioso del successo internazionale del rivale, fatto sta che lo descriveva sempre come orrendo, cadente, ridicolo. Raccontava poi di certi scherzi che venivano fatti a Capote. Chiamavano facendo finta di essere appunto Marella, poi mettevano giù».
A quasi due anni dalla morte, che cosa rappresenta ancora Arbasino per il nostro Paese, la sua letteratura?
«Rimane una figura speciale di romanziere, critico culturale, musicale e d'arte, giornalista, che ha saputo raccontare il '900 in una chiave originale e unica. Maestro di stile, nel senso di grande rinnovatore della lingua letteraria italiana».
È stato tra i primi scrittori e intellettuali in Italia a non nascondere la sua omosessualità: gestita comunque con eleganza e riservatezza.
«Sì, diciamo che da una parte non la nascondeva, e il tema omosessuale è presente in tutti i suoi scritti, dall'altra non era il classico omosessuale militante, guardava con fastidio a tutti i movimenti che rivendicavano diritti e progressi in quel campo. È abbastanza curiosa questa sua posizione, visto che era una persona per tanti versi "avanti", molto allineata con le cose americane, e molto politicizzata. Sulla faccenda dell'identità sessuale invece Arbasino era più legato alla sua generazione  pensiamo, tanto per rimanere a Voghera, allo stilista Valentino - e al suo ambiente sociale d'adozione, quello dell'aristocrazia. Dove la questione era accettata, ma non tema di conversazione, né di rivendicazioni».
Com'era il suo compagno Stefano Bollina?
«Un bel signore lombardo, più giovane di un po' di anni, salvo che poi è morto prima lui, povero. Insieme erano una coppia molto affiatata, vestivano uguali, pantaloni grigi e blazer blu, camicia a righine. Stefano era molto spiritoso, e anche paziente, perché Alberto poteva essere molto impegnativo. Si completavano, Stefano alleggeriva, e all'ultimo gli completava le frasi. Sono sepolti insieme: è stato un grande amore».
Arbasino e Voghera: dalla "casalinga" in poi, lui è sempre rimasto vogherese nell'anima...
«Sì, non ha mai abiurato le sue origini. Anzi, vi era molto legato. Ricordo che parlava spesso dei suoi parenti tra Lodi e 1'01trepo, di un suo antenato che era scappato con una cantante lirica. Anche da deputato si era occupato di questioni riguardanti Voghera. Ultimamente è uscito un libro che racconta il rapporto con la città, si chiama "Passeggiando con Alberto Arbasino". E poi c'è la famiglia, il fratello Mario, che l'ha assistito amorevolmente fino all'ultimo, e i nipoti».
L'Arbasino romano? E la Roma della sua epoca?
«Lui diceva di sé: "Nato a Voghera, rinato a Roma", perché nella capitale, dove era arrivato alla fine degli anni Cinquanta, aveva trovato la sua dimensione. Era una città internazionale e libera, c'era Cinecittà coi grandi kolossal, Cleopatra e Ben Hur, i divi. E poi gli scrittori, italiani e internazionali, i caffè di via Veneto. Fellini, la Dolce Vita. A pranzo con Gadda in trattoria. Era una Roma molto diversa da quella di oggi, e Arbasino si inserì velocemente in questo ambiente del cinema e degli artisti».

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